Buck. Un racconto di Gianfranco Angelucci

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Buck è salvo. Ha una casa, una famiglia, un padrone. Buck è un cane lupo che vive a Los Angeles e questa che vi racconto è la coincidenza più sorprendente che mi sia capitata nella vita, tanto che non esiterei a definirla miracolosa. Una coincidenza infilata in un’altra coincidenza, come le pupe della Matriosca.

Una mattina aprendo la posta elettronica, avevo trovato il messaggio di una casa cinematografica americana: mi chiedevano se ero disponibile a curare la revisione della sceneggiatura di un film dedicato a Federico Fellini. Prima di entrare ufficialmente in pre-produzione, mi spiegavano, ritenevano indispensabile che un esperto della materia leggesse il copione e ne giudicasse la sostanziale attendibilità. Potevano inviarmelo? In caso affermativo non c’era un solo giorno da perdere perché i tempi di realizzazione erano terribilmente pressanti, i finanziatori imponevano di iniziare le riprese a Roma di lì a quattro mesi al massimo. Per il mio lavoro erano previste tre settimane.

Perché no. Avevo trascorso un buon terzo della mia vita accanto a Fellini, ero stato il suo ultimo sceneggiatore, e una volta scomparso avevo continuato ad occuparmi di lui pubblicando centinaia di articoli, decine di saggi, e persino trasposizioni narrative. Mi sentivo nella posizione giusta per ciò che mi veniva richiesto, e anche, lo confesso, provavo un sentimento di gratitudine nei confronti del destino che mi consentiva di accertarmi che non venissero compiuti abusi o travisamenti superficiali sull’artista che reputavo tra i più grandi del Novecento, e al quale mi sentivo legato da un debito di riconoscenza.

Avevo risposto dunque con la consueta formula di rito: mi dichiaravo lusingato di essere chiamato a far parte di un progetto così prestigioso e accettavo sicuramente l’offerta, benché le settimane a disposizione per la revisione mi sembrassero decisamente esigue. Comunque avrei fatto del mio meglio, mi inviassero pure lo script.

Mi arrivò di notte, considerate le nove ore di differenza del fuso orario, e iniziai a leggerlo la mattina dopo. Era intitolato The Beautiful Confusion, cioè La Bella Confusione; il medesimo titolo che Fellini aveva assegnato inizialmente al suo capolavoro 8 ½. Un inizio promettente; evidentemente erano persone tutt’altro che sprovvedute, ed ero proprio curioso di scoprire come avessero impostato la narrazione. Mi dedicai appena possibile alla lettura, lasciandomi assorbire per ampi tratti della giornata. Nutrendo il segreto timore di imbattermi in un progetto impraticabile, un’americanata, un pastiche di luoghi comuni e ingenuità. Invece dopo un inizio un po’ vacillante, la storia ingranava, si snodava bene.

Andai avanti a leggere per l’intero weekend non trascurando di prendere appunti sommari.

Il lunedì successivo, a fine pomeriggio (per i losangelini metà mattinata) arrivò puntuale la telefonata del produttore, anzi di due produttori in video conferenza. Mi mostrai con loro molto incoraggiante, affermai che la storia mi era piaciuta davvero ma che a mio giudizio bisognava aggiustarla, e non soltanto in superficie. C’erano tante persone ancora in vita che avevano incontrato il regista e certo ne conservavano una memoria nitida se non fresca. L’assegnazione dell’Academy Honorary Haward, il quinto Premio Oscar alla carriera, veniva sistematicamente consultata su YouTube da milioni di persone. Dunque la figura di Fellini andava attentamente messa a fuoco nelle situazioni, negli atteggiamenti e nei dialoghi, per renderla credibile agli spettatori delle due sponde dell’oceano.

Mi sarebbero bastate tre settimane per la revisione? Potevamo procedere all’accordo?

Al compenso non si faceva cenno, considerato forse una questione di secondaria importanza di fronte all’urgenza di risistemare il brogliaccio. Presi l’argomento alla larga: l’intervento di revisione di una sceneggiatura non era un’azione meccanica remunerabile attivando un tassametro a tempo. Il termine revisione si prestava a varie declinazioni: da un lato poteva limitarsi a un semplice report su ciò che a mio giudizio non funzionava, rilanciando il compito della nuova stesura agli sceneggiatori in carica; oppure, considerando la fretta, avrei potuto mettere direttamente le mani sull’intera architettura – trama, personaggi, dialoghi – senza snaturare minimamente la versione originale, ma modificando a mio arbitrio ciò che ritenevo necessario. Quando si porta sullo schermo un personaggio talmente mitico da diventare un aggettivo – Felliniesque sui dizionari anglosassoni – il rischio è di scadere nella genericità, nello stereotipo, o peggio ancora nella parodia, senza riuscire a restituire quel magnetismo unico e inconfondibile che Fellini incarnava alla massima potenza. Prima di qualsiasi decisione mi sembrava opportuno parlare con il regista, conoscere il suo parere, concordare con lui i punti cardine.

Venivo ascoltato con assorta deferenza, mostravano di comprendere appieno le mie obiezioni e di condividerle per filo e per segno. Ogni volta però ritornavano alla nota dolente: sarei stato in grado di restituire il copione revisionato in tre settimane?

Revisionato sì, riscritto mi sembrava meno probabile se avevano sinceramente a cuore, come appariva, un intrattenimento di garbo, un prodotto di alta classe. Sul film aleggiava del resto un inconfondibile spirito d’autore e trovavo pertanto indispensabile dialogare a tu per tu con chi doveva dirigerlo.

Accordato: mi avrebbero fatto discutere direttamente con il regista, il quale, mi assicuravano, era oltremodo impaziente, anzi trepidante di scambiare con me le sue opinioni. Nel frattempo mi chiedevano anche il nome e il numero di telefono del mio agente: finalmente un accenno concreto al trattamento economico.

Telefonai a uno sceneggiatore americano, mio caro amico e compagno di lavoro in svariati progetti. Gli chiesi se poteva aiutarmi nella trattativa. Accettò e trasmisi tempestivamente il suo nome, la mail e il numero del cellulare.

Il giorno dopo la telefonata da Los Angeles arrivò a lui. Robert rimase al telefono per quasi due ore, e al termine, stremato, mi mise al corrente del risultato. I produttori offrivano una cifra non certo munifica ma neppure disprezzabile; però bisognava procedere a marce forzate perché la stesura definitiva della sceneggiatura era per la compagnia cinematografica la condizione imprescindibile per chiudere il pacchetto: vale a dire incassare gli anticipi dai finanziatori e, con quei soldi, opzionare da un lato gli attori nel firmamento hollywoodiano, dall’altro onorare il mio cachet e simultaneamente sottoscrivere i primi accordi organizzativi con i partner italiani per la scelta delle location, la pianificazione dei servizi, le prenotazione dei teatri di posa. Era un ingranaggio già avviato che non permetteva aree di sosta e non consentiva loro, per ora, di accreditarmi una prima rata per la mia collaborazione; tuttavia tra agosto e ottobre – eravamo a giugno – avrebbero assolto pienamente il loro impegno con me, garantendo l’intera somma convenuta tramite una fideiussione bancaria.

Robert mi riferiva di avere anche parlato abbastanza a lungo con il regista, il quale dal timbro di voce si rivelava piuttosto giovane – trenta, quarant’anni – entusiasta, brillante, e pervaso da un’autentica venerazione nei miei confronti. Anzi non stava nella pelle all’idea di potermi consultare di persona, perché aveva letto tutti i miei libri, ne citava interi brani a memoria, ed era inebriato di poter avere al fianco uno sceneggiatore di Federico Fellini, il sogno ritenuto fino a quel momento irrealizzabile.

Robert aveva eseguito nel frattempo una propria ricerca: il nome del regista era poco noto in America, ma il giovane non era del tutto inesperto, aveva già diretto vari documentari e in ogni caso godeva la piena fiducia della casa di produzione, ben piantata su un listino di ben settanta film alle spalle. A noi tanto bastava per concludere l’alleanza. Il giorno successivo Chris mi avrebbe telefonato direttamente per prendere gli ultimi accordi senza bruciare altro tempo.

A fine pomeriggio arrivò puntuale la telefonata di Chris. Sembrava molto emozionato, sovreccitato. Una voce fresca, carezzevole, proprio da ragazzo ben educato: non gli chiesi gli anni, non ce n’era bisogno, mi sarei formato un’idea di lui semplicemente ascoltandolo. Era inarrestabile, non riuscivo quasi a trovare uno spiraglio per inserirmi nel suo eloquio fluviale. In più parlava italiano perché sua madre era di origine Toscana. Che magnifica combinazione!

Chris non soltanto possedeva i miei libri su Fellini, ma mostrava di conoscerli a menadito, riga per riga. La passione lo travolgeva. Mi riferiva a ruota libera il suo amore esclusivo per Fellini fin dall’infanzia, da quando i genitori gli avevano mostrato per la prima volta La Strada, ed era stato uno choc indimenticabile, l’ingresso in un universo incantato. Aveva visto e rivisto decine di volte tutti i film del Maestro, ne aveva assorbito i sottotesti e ogni rivelazione inedita scovata nei miei innumerevoli commenti. Finalmente era sul punto di dare un senso alla propria esistenza, sarebbe riuscito a trasformare in realtà il miraggio che l’aveva condotto ad abbracciare la vocazione per il cinema.

Quando mi fu possibile interloquire, in capo almeno a una buona ora di conversazione, cercai di chiarire le mie perplessità sul copione. A monte di ogni intervento, bisognava decidere insieme quale Fellini avesse lui in mente con precisione: se una figura mimeticamente fedele all’originale, con una machera di lattice sul volto, oppure una personificazione allusiva affidata al talento creativo di un grande interprete, preferibilmente di origine britannica, capace di destreggiarsi tra due culture.

Ascoltandolo mi rendevo conto di quanto egli custodisse gelosamente dentro la pancia il personaggio tanto amato, e si accingesse a partorirlo grazie a una delicata operazione di cesello che avrebbe richiesto ben oltre le tre settimane previste dal piano finanziario.  Tenendo inoltre presente che i nomi degli attori ventilati erano di tale levatura che sicuramente avrebbero preteso di analizzare il proprio ruolo in ogni minimo dettaglio, fino all’esasperazione.  Chris mi dava ragione: “Facciamo come dici tu, non c’è altra strada”.

Correva ormai tra noi una corrente di fiducia, anzi di complicità, alimentata da quella divinità torreggiante che era Federico Fellini.

Così al momento di salutarci mi affiorò chissà perché alle labbra una domanda intrattenibile:

“Chris, il tuo entusiasmo è contagioso, ma puoi darmi una ragione, una soltanto, quella più valida per te, per cui dovrei accettare questo lavoro così incerto?”

Era seguita una pausa riverberata di una strana vibrazione:

“Se hai ancora un po’ di tempo, vorrei riferirti un segreto che ti riguarda”.

“Riguarda me?”

“Sì molto più di quanto immagini. Non lontano dalla mia abitazione c’è un canile, e qualche volta mi fermo a gettare un’occhiata perché amo i cani, ed ero stato attratto dallo sguardo di un giovanissimo lupo così bello che avrei tanto desiderato portarmelo a casa. Ma gli inservienti mi avevano sconsigliato: quel pastore tedesco aveva un pessimo carattere, ringhiava sempre, si mostrava aggressivo con tutti, e secondo loro era rischioso persino avvicinarlo.

Non credo di averti detto che, costantemente proteso alla ricerca di tutto ciò che scrivi, frugando nella rete avevo scoperto un giornale digitale, Articolo 21, sul quale stavi pubblicando racconti dedicati alla ‘coincidenze’ e mi ero imbattuto in quello sul tuo cane di nome Mackintosh. L’avevo divorato e alla fine avevo gli occhi pieni di lacrime. Spinto dall’emozione ho telefonato d’impulso al canile per informarmi del lupo, mi risposero che non sapevano con sicurezza se fosse ancora in vita, la struttura stava chiudendo per mancanza di fondi e i cani non adottati venivano abbattuti. Ho preso la macchina e mi sono precipitato al canile chiedendo notizie del pastore tedesco: mi dissero che proprio in quel momento lo stavano portando in astanteria per essere soppresso. «Fermatevi, – avevo quasi gridato – lo prendo io, lo porto via adesso. Vi prego, liberatelo.»

«È sicuro? Badi che è un cane difficile, un gesto brusco e parte all’assalto, cercherà di azzannarla prima che lei riesca a impedirlo». «Lo prendo con me, me ne occupo io». «Allora dovrà firmare un modulo speciale in cui dichiara che è stato avvertito del pericolo a cui si espone e che lei ci solleva fin da ora da ogni responsabilità per qualsiasi danno potrà derivarle dalla sua adozione».

Ho firmato, e mi hanno condotto il cane. Tremava, gli avevano stretto al collo una catena a cappio per strangolarlo in caso di ribellione. Appena mi ha visto ha cominciato a tirare verso di me, come se mi aspettasse. Era irrequieto, spaventato, ma mansueto, voleva solo fuggire da quel posto: appena avevo aperto la portiera della macchina era saltato dentro senza fiatare. Vedessi quanto è fiero, un esemplare meraviglioso, e non si stacca di un passo. È intelligente, gioca con tutti quelli che si fermano a complimentarsi”.

“Come si chiama?”

“Buck. È qui accanto a me, e ti ringrazia per avergli salvato la vita”.

Dovetti ingoiare un nodo che mi serrava la gola e mi rifugiai dietro il primo commento:

“Un bel nome, come il protagonista di Il richiamo della Foresta. C’è sempre un destino nel nome.”

“Lo spenso anch’io.”

Ci salutammo. Chiusi la telefonata scosso da singhiozzi sordi, irrefrenabili.

Ero travolto dalla commozione. Non mi pareva vero, stentavo a credere che il mio racconto sul bastardino un po’ magico della mia gioventù, pubblicato su uno dei tanti giornali digitali, avesse salvato la vita a un’altra creatura dalla parte opposta del globo. Ero confuso, sbalordito: se cercavo una ragione in grado di dare un senso al mio lavoro, mi era stata appena rivelata e si chiamava Buck. Quel groviglio imperscrutabile di coincidenze era tutto ciò che dovevo sapere. Null’altro.

C’era di mezzo il cane, ospite misterioso di questo pianeta fin dalla notte dei tempi: «È l’unico animale sulla terra che ha voltato le spalle alla propria specie per scegliere di vivere accanto all’uomo». Osservava Fellini in una sorta di rapito stupore.

Dal vecchio cane Argo che nell’isola di Itaca attende per morire il ritorno di Ulisse, alla lupacchiotta Stasi che ogni giorno aspettava all’uscita dall’università lo scienziato dell’imprinting, Konrad Lorenz, ci interroghiamo da millenni sull’amico a quattro zampe nel tentativo di decifrarne l’enigma. Qual è la sua vera funzione: la caccia, la guardia, la compagnia, la guida ultraterrena nel regno delle ombre come credevano gli antichi Egizi?

Quella sera stessa finendo di leggere le ultime pagine dell’avvincente romanzo di Valérie Perrin, “Il quaderno dell’amore perduto”, un intreccio interamente basato sulle coincidenze, avevo trovato ad attendermi questa elementare affermazione:

«In fin dei conti i cani sono come una bella giornata di sole, ti cambiano l’umore».


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