Le due globalizzazioni e l’estremismo dei mediocri

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A trent’anni dalle stragi che nel ’92 posero un sigillo di morte sulla cosiddetta Prima Repubblica, agevolando l’evoluzione di scenari probabilmente decisi altrove, ben più grandi delle semplici vicende italiane e che si sarebbero concretizzati nel corso del decennio, avverto il dovere morale di riflettere sul tema delle esplosioni. Quelle fisiche, certo, quelle che ci hanno privato dei simboli migliori della lotta alla mafia, degli agenti delle scorte e di persone inermi e innocenti coinvolte nella barbarie senza fine che caratterizzò il ’93, e quelle morali che sono ricadute su un Paese da allora sfigurato, abbrutito, incapace di fare i conti con se stesso, travolto dagli scandali e da una violenza, verbale e talvolta anche materiale, che non c’era mai stata nella nostra vita pubblica.

Non che i decenni precedenti fossero stati tranquilli, tutt’altro, ma il degrado etico cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni non è paragonabile a nulla di ciò cui abbiamo assistito in passato. Fra le lamiere delle auto saltate in aria lungo l’autostrada di Capaci, nell’inferno di via D’Amelio, a Firenze, a Roma e a Milano abbiamo visto, infatti, il vero volto di una Repubblica che, purtroppo, va ammesso con dolore e tristezza, ha tradito la cittadinanza. Se vogliamo comprendere le ragioni della cosiddetta anti-politica, del populismo dilagante e dei molti fenomeni politici anti-sistema venuti a galla negli ultimi tre decenni, non possiamo, dunque, che partire da qui: dal senso di distacco, di sconforto e di disgusto che milioni di persone hanno avvertito osservando i volti di una certa politica, l’ipocrisia delle sue parole, quasi mai corrispondenti alle azioni compiute, e la distanza siderale fra il palazzo e la piazza. Basta leggere alcuni editoriali, del resto, per rendersene conto.

Basta prendere atto della superficialità con cui vengono ricordati ogni volta gli “eroi” di una Repubblica in guerra con se stessa, incapace di confrontarsi con la propria storia, afflitta da troppi segreti inconfessabili e da una mole inquietante di lati oscuri, non detti, complicità e collusioni che lasciano intravedere la cappa che aleggia sul nostro vivere civile e su un dibattito pubblico ormai asfittico e privo di ogni rapporto con la realtà. Basta dare un’occhiata all’età media di alcuni editorialisti: non penso che sia un problema in sé, anzi, ma lo diventa se persone avanti con gli anni decidono di ignorare del tutto il mondo contemporaneo, lasciandosi andare ad analisi e commenti che non hanno alcuna attinenza con la complessità del reale. Quando, d’altronde, ci si ostina a giudicare tutto e tutti dall’alto della propria torre d’avorio, rinchiusi nei propri salotti, nella propria quotidianità dorata, nelle proprie frequentazioni d’élite, nelle stanze sempre più anguste di redazioni sempre più isolate e in altri luoghi inaccessibili ai più, spiace dirlo, ma si finisce col rispondere unicamente alle proprie viscere e ai propri sentimenti, per lo più frutto di evidenti pregiudizi, ignorando un pianeta che fuori dai nostri simulacri di potere ha altri obiettivi e si pone orizzonti ben diversi.

Quando non si comprende il desiderio di pace e giustizia delle nuove generazioni, quando non si capisce che il modello di sviluppo che continuiamo a perseguire con rara protervia è sbagliato e deleterio, quando irridiamo chiunque chieda un altro mondo possibile e necessario, quando ci rendiamo responsabili di una carneficina della speranza senza possibilità d’appello, rendiamo di fatto inutile la nostra categoria. E allora, per la prima volta in vita mia, mi domando se sia davvero un male il crollo delle vendite di determinati giornali e di ascolti di determinati telegiornali e trasmissioni televisive o se non si tratti, piuttosto, del fisiologico addio di chi non si sente rappresentato. Certo, in sé e per sé è un male per la democrazia, anche perché non sono mai stato un fondamentalista dei social e delle nuove forme di comunicazione, che per quanto importanti e significative presentano anch’esse dei limiti; fatto sta che, di fronte a certe parole, a certi insulti e a una certa spocchiosa arroganza, la tentazione di dire basta ha caratterizzato spesso anche me. È questa l’esplosione contemporanea: l’addio alla rappresentanza, la democrazia immatura, i giornali senza lettori e i partiti senza elettori, le istituzioni abbandonate a se stesse, i giovani costretti a fuggire da un’Italia che non li accoglie, non li capisce e, anzi, talvolta, li prende pure a manganellate e il progressivo inaridirsi di una discussione trasformatasi in arena, tutti elementi che indicano un declino al momento inarrestabile. E la mediocrità dei superbi che montano quotidianamente in cattedra, che sferzano chiunque dai loro pulpiti, che si accaniscono con rara vigliaccheria contro studenti e studentesse, contro chi manifesta per l’ambiente e contro chiunque, semplicemente, proponga un paradigma diverso dimostra, come detto, unicamente la loro inadeguatezza a vivere nella contemporaneità.

Non avrei mai voluto essere così tranchant, ma sono giunto alla conclusione che si tratti di soggetti ormai abbastanza disadattati e per questo ancora più acidi, i cui attacchi tuttavia lasciano intendere una profonda insicurezza e una complessiva inadeguatezza a far parte di una stagione che non comprendono, o almeno non fino in fondo, nella quale si sentono a disagio, vedono i loro miti di cartapesta crollare uno dietro l’altro, i loro riti perdere di senso e i loro dogmi collassare sotto il peso di una storia che, al netto delle loro dotte elucubrazioni, non si era affatto conclusa con la vittoria dell’Occidente e oggi ci presenta il conto. Del resto, a inizio secolo avevamo da una parte la globalizzazione delle merci, dei mercati e dei mercanti, di chi sosteneva, per l’appunto, che la storia fosse finita e che l’intero pianeta si dovesse uniformare alla nostra visione, ai nostri usi e alle nostre tradizioni e dall’altra la “globalizzazione della solidarietà”, di cui parlava un Papa vecchio e malato, contrario alle guerre e alla crudeltà degli uomini, anche perché dell’abisso dell’umanità ne era stato testimone diretto a vent’anni.

Da una parte avevamo i potenti della Terra asserragliati dietro le grate, mentre una folla festosa e colorata veniva massacrata di botte solo perché rea di volerne contestare la titolarità a decidere per tutte e per tutti, ovviamente piegando il prossimo, e in particolare i più deboli, ai propri desiderata. Dall’altra avevamo un Pontefice che abbracciava i giovani, ballava con loro benché straziato dal Parkinson e infliggeva un primo, durissimo colpo a quella “globalizzazione dell’indifferenza” che un altro Papa sui generis avrebbe teorizzato nel decennio successivo, andando a Lampedusa a chiedere perdono per i migranti annegati in mare. Sembra, pertanto, che sia rimasta solo la Chiesa ad alzare una bandiera di umanità e diritti, di dignità della persona e di rispetto per la comunità nel suo insieme, come testimonia anche la nomina a presidente della CEI di un galantuomo, un prete di strada che si è sempre preso cura degli ultimi e dei disperati e non ha mai fatto venir meno la propria voce in difesa di chi non ce la fa più.

Osservo tutto questo e assisto impotente alla mortificazione dell’intelligenza, del buon senso e del buon gusto che va in onda ogni giorno a reti ed edicole unificate, il tutto ad opera di personaggi che evidentemente proprio non si rassegnano all’idea che la loro globalizzazione sia un dio che ha fallito, peraltro mentre persino nei santuari della finanza, della ricchezza smodata e della teorizzazione della disuguaglianza più estrema si comincia a ragionare su come affrancarsi da una follia che sta finendo col travolgere persino chi l’aveva teorizzata e difesa con ferocia per decenni.

Sosteneva un grande intellettuale tedesco che sia “beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”. Con ogni evidenza, non è il nostro. Nonostante questo, le esplosioni cui stiamo assistendo, di furia inconsulta da una parte e di gioia per la vita dall’altra, ci dicono che nei prossimi anni la società si dividerà sempre di più fra chi sogna il ritorno alla Cortina di ferro, peraltro senza rendersi conto dell’impossibilità per la stessa America di garantire equilibri così insostenibili, e chi sogna un mondo all’insegna di legalità, speranza, aria pulita e, per l’appunto, solidarietà. È stato tolto il futuro a due generazioni, ma forse la terza ha deciso di riprenderselo.


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