Saddam Hussein: nessuna giustizia, solo vendetta

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So di essere fuori moda, ma la volgarità e la violenza che caratterizzano quest’epoca barbara non mi appartengono in alcun modo. Non mi appartiene il compiacimento per il sangue, non mi appartiene la crudeltà, non mi appartiene la ferocia, non mi appartiene l’idea che un detenuto vada lasciato “marcire” in galera e non mi appartiene la sete di vendetta che connota, ormai da tempo, non solo ampi settori dell’opinione pubblica ma anche i vertici dei governi. Sono uno dei pochi, a quanto pare, che non avrebbe fucilato Mussolini a Giulino di Mezzegra e non avrebbe condannato a morte alcun nazista in quel di Norimberga, per il semplice motivo che noi non siamo loro e che nessuna azione, neanche la più spregevole, può giustificare la pena capitale, nemmeno quando si tratta di persone che avrebbero meritato senz’altro il carcere a vita per i loro crimini. Lo stesso discorso, a mio giudizio, vale per Saddam Hussein, una figura le cui responsabilità storiche sono sotto gli occhi di tutti ma la cui tragica fine lo ha reso una sorta di martire, titolo che non avrebbe meritato ma che siamo costretti ad attribuirgli sul campo per via del cappio al collo che ha segnato la sua fine esattamente quindici anni fa a Baghdad.

Bisognerebbe eliminare dai vocabolari il verbo “giustiziare”: nell’omicidio di stato non c’è giustizia, c’è la stessa cattiveria dell’assassinio compiuto da un privato cittadino, con l’aggravante di una lucidità e di una consapevolezza che può talvolta mancare in un soggetto in preda a un ingiustificabile raptus ma che non manca di sicuro nel boia che esegue una sentenza di morte.
L’impiccagione di Saddam,  inoltre, non ha pacificato l’Iraq, non ha sanato le divisioni che si sono aperte nel paese in seguito alla sua caduta, non ha garantito stabilità e sicurezza all’Occidente, non ha reso giustizia a chicchessia, meno che mai alle sue numerose vittime, e ha mostrato unicamente il volto sanguinario di un’amministrazione, quella di Bush, le cui guerre in Afghanistan e, per l’appunto, in Iraq hanno provocato una destabilizzazione globale che pagheremo ancora a lungo.
Quindici anni dopo riguardiamo quelle immagini con incredulità e dolore, ricordandoci che stiamo comunque parlando di un essere umano e che in quel corpo senza vita è racchiusa una duplice ingiustizia: quella per un esito inaccettabile a prescindere e quella che avvertiamo pensando a tutto ciò che avrebbe potuto ancora raccontare una persona così implicata nelle principali questioni globali degli ultimi quarant’anni.
Saddam Hussein è una figura tragica, verso cui è impossibile non provare sentimenti contrastanti. Da una parte, infatti, ne ricordiamo le malefatte; dall’altra ne ricordiamo la fine e ci interroghiamo su cosa sia migliore il nostro modello rispetto al suo, se la sola conseguenza di una guerra d’invasione e priva di fondamento è stata il cappio, l’abbattimento, il gettare nella polvere il nemico senza riconoscergli nemmeno l’onore delle armi una volta sconfitto né quel minimo di dignità che avrebbe, quanto meno, dato l’impressione di una diversità di modi rispetto a un autocrate. Non abbiamo voluto, non ne siamo stati capaci, abbiamo preferito l’orrore e l’esecuzione alla forza del diritto. Chissà se quindici anni dopo qualcuno si è reso conto che a quel cappio ipocrita e intollerabile è rimasto appeso l’Occidente, non più in grado di rivendicare alcuna supremazia, meno che mai morale, e pertanto sconfitto senza possibilità d’appello.
P.S. Un pensiero affettuoso a Renato Scarpa, scomparso oggi all’età di ottantadue anni. Me lo ricordo in Diaz, nei panni di Arnaldo Cestaro, il militante di Rifondazione comunista che venne massacrato in una delle notti più buie della nostra democrazia. Scarpa non era mai un comprimario: gli bastavano due battute per diventare protagonista. La sua dolcezza, la sua maestria nel recitare e la sua gentilezza d’animo, in quell’occasione più che mai, fecero la differenza. Ci mancherà moltissimo.

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