La libertà di informazione ed i suoi nemici

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Nel momento in cui la mano di Mario Draghi ha stretto quella del «dittatore» turco Tayyip Erdogan, come ebbe a definirlo lo stesso premier italiano, hanno fatto idealmente ingresso al G20 di Roma le voci ed i volti di quei giornalisti, di quegli avvocati, di quei cittadini che il regime di Ankara continua a tenere rinchiusi in una prigione per impedire loro di raccontare quel che avviene in questo Paese che si affaccia all’Europa, tanto vicino geograficamente quanto lontano sul piano del rispetto dei diritti umani. È come se fossero comparsi anche loro, fra i “grandi della Terra”, al momento della foto di gruppo. E per un istante, almeno, nessuno ha potuto far finta di non vedere e di non percepire l’entità della sfida che incombe sul futuro del mondo e che impone di salvaguardare il bene preziosissimo e sempre più a rischio della libertà di informazione, con lo stesso identico impegno con cui si afferma di voler proteggere il clima, l’economia e la salute a livello globale.
L’Italia che, proprio attraverso le pesantissime parole scandite nell’aprile scorso dal Presidente del Consiglio, ha saputo esprimere una confortante presa di distanza rispetto alla brutale repressione perpetrata quotidianamente dalle milizie di Erdogan, ha oggi la possibilità di farsi davvero garante della vita e del lavoro di ogni giornalista e, attraverso ciascuno di loro, dell’essenza stessa della democrazia.
A quelle parole, tanto pesanti e promettenti, devono far seguito interventi altrettanto incisivi ed esemplari.
Non ci si può più accontentare della solidarietà del “giorno dopo”, con cui la politica italiana, all’indomani di ogni plateale aggressione a danno degli operatori dell’informazione, ama costernarsi e indignarsi prima di gettare veloce la spugna “con gran dignità”, per parafrasare ancora una volta i versi profetici di Fabrizio De André.
Inascoltato rimane il monito della Consulta con cui il Parlamento è stato invitato a dare concreta attuazione all’art. 21 della Costituzione. Oscurati dagli interessi dei partiti e di potentati di ogni sorta, sono i disegni di legge con cui si vorrebbe arginare la piaga delle querele-bavaglio, delle azioni temerarie, delle slapp (nell’accezione invalsa in ambito comunitario), destinati a giacere a futura memoria negli archivi di Montecitorio, col rischio sempre incombente di venire definitivamente abbattuti da uno stuolo di prontissimi franchi tiratori, se solo venissero allo scoperto, proprio com’è accaduto col ddl Zan. Sostanzialmente inadeguati permangono gli strumenti normativi di protezione dei cronisti, bersaglio facile nelle piazze e sui social di campagne di odio che sono il preludio di una violenza che non ha mancato di manifestarsi già, con esiti oltremodo inquietanti, anche nella sua materialità. Svilita e mortificata si presenta, ancor oggi, l’immagine di una Giustizia che non sa rendere Verità ai familiari di quei giornalisti vigliaccamente uccisi nell’adempimento del loro lavoro, come Ilaria Alpi, Miran Hrovatin, Mino Pecorelli, Andrea Rocchelli, Antonio Russo o fatti scomparire nel nulla come Italo Toni e Graziella De Palo.
Non bastano più le parole, per quanto pesanti e significative. Alla politica del “bla bla bla” devono far seguito risposte credibili da parte del legislatore. Non c’è più tempo. Anche sul fronte della tutela della libertà di informazione.

 


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