Turchia, l’ultima tirannia di Erdogan: cacciati 10 diplomatici che difendevano l’oppositore Kavala

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La cacciata dalla Turchia dei dieci ambasciatori occidentali che chiedevano la liberazione del mecenate e intellettuale Osman Kavala, da oltre 1400 giorni in carcere, non sorprende chi il regime turco lo conosce bene e ne denuncia da tempo violazioni dei diritti umani e azioni antidemocratiche.
Resta la gravità di questo ennesimo atto di tirannia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, un’ingiustificata espulsione di massa di diplomatici che pone definitivamente fuori dall’alveo dello stato di diritto il Paese che voleva entrare in Europa.
La Turchia non si era mai spinta a tanto. Negli ultimi 50 anni si era limitata a dichiarare “persona non grata” qualche rappresentante della diplomazia estera (tre per essere precisi) che si era spinto oltre il limite concesso, ma non c’era mai stato un provvedimento di tale portata. Ad annunciarlo lo stesso presidente turco affermando che i rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Germania, Canada, Finlandia, Danimarca, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia non erano più graditi.
A pesare sulla decisione, che resta per ora in sospeso, è stato l’accanimento spropositato nei confronti di Kavala, editore e imprenditore che ha sempre contrastato l’autoritarismo di Erdogan.
Kavala, che è riconosciuto e stimato a livello internazionale anche per la sua attività di filantropo, dal novembre del 2017 è un prigioniero politico. Arrestato la prima volta con l’accusa di aver tentato di rovesciare il governo finanziando le manifestazioni di Gezi Park del 2013, è stato processato insieme a 16 altri imputati tra accademici, giornalisti, artisti e imprenditori, alcuni in contumacia. Assolto da quelle accuse, il giorno stesso ha ricevuto un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il tentato golpe del luglio 2016.
Un caso, quello di Kavala, su cui ha espresso preoccupazioni più volte l’Unione europea e la Corte di giustizia ne ha chiesto ripetutamente la scarcerazione.
Sin dal primo istante, anche grazie alle denunce di Amnesty International e Human Rights Watch, il processo su Gezi Park è apparso iniquo e arbitrario, senza “uno straccio di prova”.
Prima che dai giudici, Kavala era stato accusato da Erdoğan in persona di aver cospirato contro di lui finanziando il movimento pacifico che nel 2013 animò una serie di manifestazioni di dissenso contro il governo, iniziate con il sit-in di una cinquantina di persone che si opponevano alla costruzione di un centro commerciale al posto del parco Gezi.
Cortei e dimostrazioni vennero repressi con la forza dalle squadre antisommossa della polizia, il bilancio fu di 9 morti e 8163 feriti.
Il rinvio a giudizio con l’accusa di ‘tentata eversione dell’ordine costituzionale’ di tutti gli imputati è maturato sulla base di un’ordinanza di 657 pagine, in cui comparivano anche i nomi dell’ex direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, e del giornalista e opinionista Mehmet Ali Alabora, colpevoli di aver raccontato e commentato l’onda delle proteste.
Leggendo l’atto di accusa era evidente che non esistevano elementi a sostegno della tesi del procuratore ma teorie senza base giuridica che sollevavano dubbi sul rispetto della giustizia turca delle norme internazionali ed europee.
L’inchiesta sul movimento di Gezi Park non è ancora chiusa, altri esponenti della società civile sono sotto indagine. Non perché siano responsabili delle proteste ma semplicemente per aver esercitato il proprio diritto alla libertà di espressione.
Un “clima di paura” teso a scoraggiare lo svolgimento di assemblee pacifiche e a imporre bavagli ai media, imposto dalle autorità in Turchia nel silenzio colpevole di un occidente che disattende, con la propria indifferenza, principi su cui ha bassato la propria struttura democratica.
Oggi più che mai Articolo 21, che ha partecipato come osservatore ai processi per terrorismo in Turchia, insieme alla rete delle organizzazioni internazionali dell’Advocacy Turkey Group continua a chiedere la liberazione di Kavala e di tutti i giornalisti, artisti e delle altre figure del mondo della cultura ancora in carcere con l’accusa di aver partecipato o sostenuto il tentativo di colpo di Stato fallito nel luglio 2016.


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