Portare il teatro nei luoghi di detenzione non è “un gioco”

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David Lazzari presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi nel corso di una puntata di Tutta la città ne parla ( un programma di Rai Radio 3, intervistato da Pietro del Soldà), spiegava come la pandemia avesse creato, in conseguenza del confinamento e della chiusura di ogni forma di contatto sociale, «un atteggiamento prevalente di rabbia e depressione subito nella popolazione e prima ancora di ansia e paura. Uno stato di crisi che va a toccare il rapporto tra clima sociale e benessere psicologico, non solo basato su presupposti di natura economica, ma riferito anche ad un clima complessivo di cooperazione nella necessità di recuperare un senso di affidabilità verso le istituzioni a livello sociale. Per questo vanno individuate le risorse per implementare strategie di resilienza nella popolazione e il governo (al momento del suo intervento al governo c’era il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ndr) non le sta attuando». Il dottor Lazzeri (è responsabile del servizio psicologico dell’azienda ospedaliera di Terni) si era pronunciato a nome dell’Ordine anche per sollecitare «un sostegno pubblico poiché le proposte di utilizzare contenitori sociali come la scuola, il welfare, il lavoro, non sono stati attivati per l’ascolto. Il clima psicologico è peggiorato e le persone sono stanche. Non è una vera e propria malattia ma un’alta percentuale tra il 50 e il 70 % di persone ha subito un forte stress. Gli studi sulla pandemia hanno rilevato come i conflitti e i tumulti che si sono venuti a creare siano in una costante correlazione tra istituzioni che devono trasmettere messaggi autorevoli e rassicurare la popolazione. In una società che crea malessere la pandemia ha accelerato questo grave problema». Un disagio che ha trovato sempre più terreno fertile nei social network dove si amplificano in modo incontrollabile le polemiche sempre più litigiose e violente.

Un modo di comunicare aggressivo a prescindere dal contenuto della discussione e del confronto che ha travalicato ogni forma di rispetto civile per le opinioni altrui. Si assiste quotidianamente ad un linciaggio che impedisce di fatto la possibilità di avere un contraddittorio che non sia basato sull’insulto. Scrive Jan Leslie del The Guardian sull’Internazionale del 18/24 giugno: «Internet sta mettendo in contatto le persone, ma non sta necessariamente creando un senso di fratellanza. Anzi, nel peggiore dei casi può somigliare a un’enorme macchina per la produzione di reciproca antipatia. La tecnologia è almeno in parte responsabile di un mondo pervaso da forme tossiche di disaccordo, in cui si offende e si è offesi costantemente: un mondo in cui parliamo sempre di più e ascoltiamo sempre meno». Il giornalista e scrittore inglese autore di saggi sull’argomento, tra i quali “Bugiardi nati” (Bollati Boringhieri 2016) spiega anche il perché siamo arrivati a questa involuzione che sta generando un linguaggio d’odio che sta dilagando sulla Rete: «Anche se siamo tentati di farlo, dare la colpa a Facebook e Twitter per averci ridotti così significherebbe ignorare la rilevanza di un cambiamento più ampio e più profondo nel comportamento umano: un cambiamento che si è verificato nel corso di decenni, se non addirittura secoli.

Nella società, così come nel mondo digitale, i canali di comunicazione a senso unico non sono mai stati così pochi. Ormai tutti possono rispondere a tutti». Il risultato è a dir poco impressionante per il livello di scontro che si genera grazie alla possibilità di scagliarsi contro senza ricorrere ad un confronto reale o mediato da una dialettica che sia capace di accogliere il pensiero o l’opinione altrui. «Per osservare delle reazioni aggressive in situazioni di disaccordo basta aprire i propri profili social – prosegue Jan Leslie – e alcuni sostengono che internet crea delle “camere a eco” in cui le persone incontrano solo idee che condividono, ma ci sono anche prove a sostegno della tesi opposta». Il risultato è un’esplosione di ostilità, rabbia e commenti offensivi. Ed è quello che sta accadendo da alcuni giorni nei confronti del Teatro dei Venti di Modena e del suo regista Stefano Tè, la cui “colpa” è quella di aver ripreso la sua attività artistica-teatrale nel carcere di Modena con lo spettacolo Odissea in cui recitano anche dei detenuti. Chi contesta (il primo a farlo è stato un attore commentando aspramente sul profilo social del Teatro dei Venti e a seguire si sono aggiunti altri con toni aggressivi e accusatori), imputa al regista (va ricordato come egli  svolga il suo lavoro nei carceri di Modena e Castelfranco Emilia da 15 anni), di non essersi dissociato (ma al contrario “lodato e ringraziato la direzione del carcere”) come riconoscimento per avergli permesso di ritornare a fare teatro, rispetto a quanto accaduto lo scorso otto marzo del 2020, quando nella Casa di reclusione Sant’Anna della città emiliana, scoppiò una rivolta ( si erano verificate anche in altri istituti penitenziari italiani), con la conseguenza tragica di causare la morte di nove detenuti. Il carcere subì devastazioni tali da risultare inagibile e di conseguenza la maggioranza dei detenuti (417 tra uomini e donne su 546) furono trasferiti in altre città.

Nel corso della ribellione furono rubati dalla farmacia dosi di metadone e psicofarmaci assunti dai detenuti fino a causarne la morte e il ricovero in ospedale per altri di loro. Le indagini condotte dalla magistratura portarono alla decisione della Procura di escludere responsabilità nei confronti degli agenti di guardia accusati di non aver vigilato e controllato che le vittime avessero con sé i farmaci, togliendoli loro e di fatto impedirne l’assunzione. I famigliari delle vittime e i loro legali contestano la ricostruzione di quanto accaduto e chiedono verità e giustizia nell’accertare eventuali responsabili. Nei confronti del Teatro dei Venti l’atto di accusa è stato poi esplicitato in un video su youtube in cui si può leggere che «da più di un anno, molti stanno cercando di fare luce sulla vicenda i cui contorni risultano ancora nebulosi, complice il tentativo delle istituzioni di depistare ed archiviare le indagini, mettere a tacere le voci di dissenso e le testimonianze dall’interno. In questo panorama umanamente agghiacciante, il Teatro dei Venti porta a conclusione un progetto teatrale all’interno di questo carcere, dimostrandosi indifferente riguardo ai fatti accaduti e senza la minima empatia verso le persone che lì hanno perso la vita. Infatti, l’unico cinico commento pubblico sulla faccenda è stata la constatazione di aver perso un attore (perché deceduto) e di aver dovuto sostituire il 90% degli altri attori/detenuti (presumibilmente perché trasferiti dopo la rivolta o perché si sono rifiutati o gli è stato vietato di proseguire con il progetto)».

Chi conosce bene il lavoro di Stefano Tè può testimoniare come la sua onestà intellettuale possa confermare quanto impegno, abnegazione, serietà professionale e non da ultimo il rigore morale sia la guida che da sempre lo indirizza in quello che fa fuori e dentro il carcere. Lo stesso regista nel rispondere civilmente e pacatamente a quanto gli viene contestato scrive che «dopo l’8 marzo 2020 abbiamo scelto di aumentare la nostra presenza in Carcere, mentre il suggerimento di tanti era di abbandonare il presidio, ovvero le persone a loro stesse. Non dimentichiamo i morti e non dimentichiamo i vivi che abitano quei luoghi. Entrare in Carcere adesso è ancora più difficile e ancora più importante».

Chi scrive segue da molti anni esperienze di teatro in carcere e nella sua esperienza ha potuto notare come la qualità di vita dei detenuti nell’impegnarsi in progetti artistici (e non solo) ha contribuito a ridare un senso alla loro esistenza. Non solo a Modena ma anche a Volterra dove da oltre 30 anni la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo dimostra quanto sia vero, e “Anime salve” di Domenico Iannacone, realizzato per il programma I Dieci Comandamenti di Rai 3, è la prova documentata di come la funzione rieducativa e riabilitativa del carcere, sancita nella Costituzione italiana, veda la sua applicazione grazie all’impegno di chi lavora insieme ai detenuti.

Vi è traccia di questo anche nel lavoro stesso che il regista Punzo ha saputo ottenere grazie alla fiducia e al cambiamento operato all’interno dell’istituto penitenziario di Volterra, tanto da ottenere  dei benefici anche sulla salute dei carcerati. A dirlo è lui stesso nella pubblicazione edita da Sassoli Editore “Un’idea più grande di me. Conversazioni con Rossella Menna: «Ledo Gori, il capo di gabinetto di Enrico Rossi che in quel periodo era assessore alla sanità della Regione Toscana mi disse: “Tu non lo sai, ma io ti conosco, conosciamo l’andamento del Carcere di Volterra dal fatto che non arrivano richieste di terapia, di psicofarmaci». Un risultato che conferma quanto possa essere indispensabile creare le condizioni di vivibilità in un luogo di reclusione e anche il teatro può contribuire. La sua funzione in carcere espleta anche questo mandato quando viene permesso di esercitarlo. Va ricordato come l’obiettivo primario della pena detentiva è quello di modificare e trasformare il comportamento del detenuto, agendo sulla riclassificazione e trasmissione di nuovi valori, la cui importanza esercita sulla persona una possibilità di riscatto. L’articolo 27 della Costituzione italiana spiega che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Anche con il teatro, nonostante le accuse rivolte al Teatro dei Venti, dove si è  generalizzato senza aver conosciuto cosa può produrre il lavoro artistico all’interno dell’istituzione. Chi lo fa accusa di «(…) portare il teatro in certi luoghi di detenzione è, a detta di chi lo fa, principalmente un modo per dare al teatro i brividi della sofferenza vera, addolcendo il tutto con la scusa di fare comunque del bene a chi sta dentro. Questa giustificazione risulta, non solo ipocrita, ma opportunista». Tale affermazione può essere facilmente smentita dagli stessi detenuti sia di Modena, sia di coloro abbiano partecipato attivamente come, ad esempio, al progetto di regista Mimmo Sorrentino nel 2013 nella Casa di reclusione di Vigevano, dove è stato possibile, anche per l’istituzione di un progetto che prevede l’utilizzo del teatro partecipato, con “fini trattamentali”, per favorire una maggiore inclusione quando il detenuto termina di scontare la sua pena e può tornare libero.  Esperienze significative si possono riscontrare nel Teatro Nucleo di Ferrara  di Horacio Czertok e Marco Luciano.  Lo stesso accade da anni a Milano dove lavora Michelina Capato nel Carcere di Bollate, o le esperienze di Rebibbia a Roma.  Un pregresso storico di decenni in cui sono stati evidenziati e riconosciuti i risultati ottenuti.  A dirlo non sono solo gli stessi protagonisti (artisti e registi) ma anche educatori, psicologi, e chi studia le condizioni di vita dentro gli istituti di pena.

Giulia Zennaro su Ristretti Orizzonti scrive: «Ma quali sono, in sostanza i benefici del teatro per un carcerato? Oltre alla significativa riduzione delle recidive per chi partecipa a queste iniziative, il teatro offre a chi è dietro le sbarre l’occasione di relazionarsi in modo sano con l’altro. La disciplina, l’autocontrollo, il rispetto delle regole, oltre alla possibilità di esprimere se stessi senza giudizio: il teatro può rappresentare la speranza di vedere un futuro oltre le sbarre. O di mantenere il contatto con il mondo esterno e le emozioni umane, per non trasformare il “fine pena mai” in un inferno».

Se il carcere ha aperto le sue porte nonostante le molte difficoltà di farsi accettare e poter produrre attività artistiche e laboratoriali  (e tra tutti  sia Stefano Tè che Armando Punzo lo possono confermare), questo significa che il teatro ha una sua funzione sociale importante e impedirla ora sarebbe grave, specie ora nella situazione in cui tutti ci siamo trovati a vivere.

L’accusa rivolta a chi svolge questo lavoro nei carceri è quella «di avere più responsabilità di quello che credono, perché facendo vivere la poesia del teatro, hanno forse acceso lumi di bellezza, libertà e giustizia che nella realtà si sono scontrati con la repressione dell’istituzione. A questo punto, però, i teatranti se ne sono lavati le mani, pensando inopportuno scontrarsi con chi in questa storia detiene il potere ed anzi mettendosi al fianco degli aguzzini per continuare le loro attività ed aggiungendo altri piedi a calpestare le vite di esseri umani che dentro quel carcere, in cui loro giocano a fare teatro, hanno trovato invece la morte». Ogni critica è legittima se circostanziata a patto che non sia strumentale e agita con malafede. Definire tutto questo “giocare a fare teatro” stride nella sua mistificazione della realtà osservata durante la permanenza nei carceri per seguire i tanti processi creativi e ferisce chi ha scelto di farlo con un preciso scopo. Privare anche questa opportunità, che sia a Modena o in altre città, avrebbe solo lo scopo di privare i detenuti di una possibilità in più di credere che il carcere non sia solo “repressione”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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