Impastato e tutto quello che oggi resta

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Sono trascorsi 43 anni dal delitto e ancora ci si trova dinanzi lo scenario di quegli anni così lontani ma così vicini…meno di 100 passi
Se c’è una data che segna il mio avvicinarmi alla professione giornalistica è proprio quella del 9 maggio del 1978. Io, allora liceale, sulla soglia del diploma, mi ritrovai per strada, più che a sfilare a parlare con i miei coetanei. Un mio compagno di classe che allora collaborava con una radio privata mi chiese di aiutarlo a raccogliere le reazioni dei nostri compagni e di chi con noi sfilava per le strade di Trapani. Il corteo però non era dedicato a Peppino Impastato, forse nemmeno sapevano nulla di quello appena accaduto a Cinisi, di quel corpo dilaniato dal tritolo sulla ferrovia Palermo Trapani. La protesta e l’0indignazione era rivolta ad altro, alla morte di un grande statista, di un uomo democratico e libero, Aldo Moro, trovato ucciso a Roma, ammazzato dai terroristi delle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia. Di Peppino Impastato continuammo a sapere poco anche nei giorni, nelle settimane a venire, c’è voluto del tempo, per uscire fuori e capire che Peppino non era un terrorista e chi voleva farlo passare per tale aveva il solo obiettivo di celare la verità sulla sua morte. Parlare di mafia allora era difficile, per riuscire a farlo, almeno a Trapani, c’è voluta una strage di qualche anno dopo, quella del 2 aprile 1985, l’attentato al magistrato Carlo Palermo, l’autobomba che uccise Barbara, Salvatore e Giuseppe Asta, una mamma di 30 anni ed i suoi gemellini di 6 anni. Si sentimmo parlare di mafia, ma come negazione: “qui la mafia non esiste” tuonò in diretta Rai rispondendo ad Enzo Biagi l’allora sindaco di Trapani Erasmo Garuccio. I giovani reagirono e costituirono il “coordinamento antimafia”. In tutta questa mia premessa c’è ciò che oggi resta di quegli anni, il depistaggio. E’ stato e rimane il comune denominatore di tante vicende, sopratutto in quelle dove la mafia c’entra. Aldo Moro vittima del terrorismo, Peppino era un terrorista, Carlo Palermo doveva essere uccisi per le indagini condotte quando era giudice istruttore a Trento e via così, senza dimenticare che nel 1983 un magistrato di nome Ciaccio Montalto venne ucciso per questione di corna e la stessa cosa con tante altre si disse per Mauro Rostagno ammazzato nel 1988, lo stesso anno e lo stesso mese, era settembre, in cui fu ucciso un giudice in pensione, Alberto Giacomelli, a tratti finito con l’essere indicato come vittima per i suoi interessi in agricoltura. Depistaggi. Come nell’anno delle stragi del 1992 e del 1993. Depistaggi come quando si indagava sulla loggia massonica segreta Iside 2, finita con l’essere rappresentata come un conclave di sporchi affaristi, ma anche in quel caso si finì con il non parlare di mafia, nonostante a quella loggia segreta risultarono iscritti fior di mafiosi. Ecco nella nostra Sicilia, ma possiamo dire nel nostro Paese, il depistaggio è ciò che continua a resistere a tutto. Come per esempio accade a Capaci, dove per non far indagare un maresciallo dei Carabinieri sugli affari sporchi attorno alla realizzazione di un centro commerciale e contro suoi colleghi spregiudicati che vi partecipavano, altri carabinieri si sono inventati una storia diversa per fermare quel maresciallo, Paolo Conigliaro. Finito adesso sotto processo dinanzi al Tribunale Militare di Napoli per diffamazione. Una indagine e un processo costruiti a tavolino, addirittura con chat di whatsapp fatte con copia e incolla per mettere su dialoghi inesistenti, un processo che per istruttoria e svolgimento somiglia tanto a un processo per mafia, Conigliaro denudato e perquisito il giorno della notifica dell’informazione di garanzia, liste testi interminabili, per diventare, per tempi di svolgimento, quasi come il famoso maxi processo di Palermo. Depistaggio, non altro. Resta anche altro in questa Sicilia di ciò che c’era nella Sicilia degli anni ’70. La famosa frase “a cu apparteni”, a chi appartieni, domanda d’obbligo rivolta a chi con maggiore incisività di altri si approcciava a svelare i segreti della società e della onorata società. A Impastato mandarono a dire che lui apparteneva ad un padre mafioso e quindi non poteva fare ciò che faceva, a Ciaccio Montalto andarono a dire che lui era parte di un Palazzo di Giustizia dove regnava la corruzione e quindi anche lui doveva adeguarsi, a Rostagno dissero, con una comunicazione giudiziaria, che apparteneva al mondo di Lotta Continua che aveva voluto la morte a Milano del commissario Luigi Calabresi per cui era inopportuno che lui parlasse di delitti e di delitti di mafia. Anche a Paolo Conigli aro ci fu qualcuno che gli ricordò che lui faceva parte di un sistema, quello all’interno dell’Arma dei Carabinieri, e a quel sistema doveva adeguarsi senza tanto seguire gli indirizzi dei magistrati. Oggi di quegli anni ’70 resta la mafia che si è fatta sommersa, perché questo è il migliore modo per i boss di continuare a tessere le reti per i loro affari, traffici, inquinamenti istituzionali, la mafia che scompare perché l’ultima delle tante trattative l’ha vista ottenere ciò che voleva, cioè campo libero. C’è l’ombra della trattativa nei delitti di questi 50 anni siciliani, da Portella della Ginestra in poi, ma siamo convinti c’è molto altro. Restano irrisolte le trame, quelle che vedevano i mafiosi farsi apri pista di tante cose a favore di certa politica e certa imprenditoria. Restano i giorni di latitanza dei boss, sempre tanti oggi per Matteo Messina Denaro, ieri per Riina, Provenzano e tutti gli altri. E resta uno Stato secondo il quale pezzo di merda ad un mafioso non si può dire, e chi lo ha detto è stato condannato, nonostante poi si continua ad usare come slogan ciò che Peppino Impastato ci ha lasciato detto e cioè che la mafia è una gran montagna di merda. E la parolaccia in questa affermazione non è la merda.

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