Rai 5 e Rai Play in soccorso del teatro di prosa

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Piuttosto che niente, meglio piuttosto-bofonchiava l’on. Tremonti, forse preconizzando che “se di cultura non si mangia”, l’unica “immunità di gregge”, fermamente acquisibile, è rendere refrattaria l’italica umanità a ogni genere di pensiero o espressione  d’arte. Il teatro, ad esempio e in senso lato e multidisciplinare: nelle sue  massime espressioni dialettiche, creative di rito collettivo, civilizzanti il dibattito (ancora e fin quando?) democratico. Come è giusto, doveroso riconoscerlo nel recente (e ancora in corso) ciclo di Rai 5 e (e a breve) su Rai play  che arricchisce i propri archivi e relativa programmazione di allestimenti, performance, nuove proposte cui la pandemia ha troncato le ali appena in volo – con digiuni e ‘carestie’  di gruppo che non conoscono nè ristori né ristoratori.

Si inscrive in questo progetto di divulgazione, sentimento critico (del presente e del passato), di curatela di una  memoria che vorremmo “collettiva” il pluriforme progetto intercettabile il sabato sera nell’apposito canale 23 e, via streaming, nelle connessioni tramite internet: tutte di impeccabile riproduzione formale e agilità di una regia televisiva, vivacemente  concentrata sull’ uso di primi piani, piani-medi, panoramiche di sala  in vivido cronometrico montaggio alternato (regia televisiva di Felice Cappa)

Trattasi delle  “Trilogie dell’inquietudine” (implicito riferimento a Fernando Pessoa?)   che sembra  rinverdiscano di nuovi linguaggi le antologie della prosa televisiva, anni sessanta (tutte in diretta!) di cui furono maestri, fra gli altri, Sandro Bolchi, Daniele D’Anza, Flaminio Bollini, Biagio Proietti e l’inarrestabile  Andrea Camilleri.

Procediamo con qualche segnalazione

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Nella storica edizione dell ”Iliade” i Omero- riproposta dal Teatro del Carretto, regia di Maria Grazia Cipriani, scene e costumi di Graziano Graziani, sonorità di Hubert Westkemper.  a un quarto di secolo dal debutto-  dirompe una cifra espressiva tellurica, barbarica, preistorica, di ancestrale minaccia. Come se i  famelici “Giganti della Montagna” (si: quelli che solo Pirandello “intravide”), scesi rovinosamente a valle, avessero manifestato la loro natura di golem, totem feroci, mastodontiche strutture lignee-argillose istruite da Marte all’ “arte ella guerra”: fine a se stessa e senza le concrete ragioni economiche, geopolitiche che sono la “analitica conquista” della storia contemporanea

Attori veri e attori meccanici, armature, pupazzi semoventi, scudi scolpiti, destrieri e marchingegni a vista che si aprono, si trasformano, moltiplicano- al Teatro Verdi di Lucca- che sostanziano la  natura “ambigua e terribile”, di un allestimento possente ed emozionante  che non rinuncia a professare una sua idea di sacralità, rituale e liturgica, che a noi giunge come siderale e antecedente la stessa “nascita della tragedia”, storicizzatasi –poi- in epica e mito.   L’incantesimo parsimonioso e possente di Omero si materializza dall’incontro di musiche, luci, versi  parole aleggianti fuori scena, gesti e macchinari meravigliosi, da cui “scaturiscono a fontana visioni, barbariche, austere suggestioni su uomini, dei e semidei”- annota la Cipriani.

Un’ora e mezzo, senza intervallo, di rara fascinazione per intelletto e originalità sequenziale di ogni immagine

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Con “Metamorfosi”, la nuova produzione del Teatro di Roma (senza pubblico in sala a duplicare il sentimento dell’inquietudine condivisa) si fa racconto di grande contemporaneità, assorbendo le istanze del nostro presente ed evocandone la comune condizione di costrizione, alienazione, “distanziamento coatto” , enucleate dallo spazio ristretto in cui è rinchiuso l’ “insetto” Gregor  Samsa: una stanza simbolica di un simbolico luogo interiore che rifrange la disfunsione comunicativa, il “malinteso” camusiano l’anomalia del distacco che circonda noi tuttiio. Ogni giorno peggiore del precedente.

Nato in stretta relazione con le riflessioni e i limiti imposti dalla crisi pandemica,  la nuova   creazione drammaturgica cr di Barberio Corsetti porta il regista, ancora una volta, ad immergersi in un universo kafkiano di “mostruosità e disagio”, dotato di una  scrittura scenica “che si inoltra nello squarcio profondo dell’alienazione sociale e della depressione, per indagare fragilità e inquietudini” al di là di turbolenze superficialmente ascritte” alla “patologia  del disadattato , ci   Così, dopo Descrizione di una battaglia, America, Il Processo, Il Castello, il regista (e direttore e direttore artistico del Teatro di Roma) torna a confrontarsi con uno dei capolavori del Novecento, in una ricorrenza creativa della poetica dell’autore boemo che ha “segnato” la sua carriera quarantennale, fin dal debutto ‘underground’ dello storico Beat 72.

Con La metamorfosi, (che segue di tre anni una magnifica edizione di Ugo Chiti, con Giuliana Lojodice monologante protagonista), Barberio Corsetti fa i conti con un “sentiero di scrittura per immagini” che coinvolge corpi e squallidi ambienti, attraverso la metafora di una “irragionevole” trasformazione fisica, conto cui vanno a impattare “sensi e linguaggio”. Una trasformazione paradossale, letteralmente entomologa (per capacità di contorsionismo attorale), che si manifesta nella mutazione in scarafaggio del protagonista Gregor, a cui segue l’isolamento, la repulsione, la necessità di rinchiudersi in una stanza, al sicuro ma distante dal resto del mondo,  fino ad “soddisfarsi” nell’auto-annullamento totale e irreversibile. Annota Barberio Corsetti “Attraverso le parole di Kafka, assumiamo il punto di vista di Gregor, che è insetto ma pensa da essere umano, sperimentando la condizione cosmica e metafisica, di un personaggio” segnato dal rigetto della “totalità alienante, ottundente” alla cui origine  “sta” il lavoro  “senza vocazione”, subordinato alla necessità di sfamarsi”- Sullo sfondo della maldicenza a-sociale, della emarginazione  da uno sghembo nucleo familiare, ubriaco di laide ambizioni piccolo borghesi.


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