Il Giappone rinuncia alle Olimpiadi e l’Italia non rinuncia al pubblico a Sanremo

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Non è ufficiale, ma l’ha scritto The Times: secondo l’autorevole quotidiano inglese il governo giapponese “ha già deciso in forma riservata di annullare le Olimpiadi di Tokyo a causa del coronavirus, puntando ad aggiudicarsi l’edizione 2032”. Una notizia-bomba smentita per ora dagli ambienti sportivi giapponesi impegnati da tempo nella preparazione dei giochi in programma dal 23 luglio all’8 agosto, mentre si attende in proposito una decisione del governo annunciata per i prossimi giorni.

Da noi si sta dibattendo un problema non da meno: il festival di Sanremo potrà avere il pubblico in sala? Secondo le norme imposte dall’emergenza antivirus la cosa è esclusa a priori. Giustamente si fa osservare che in Italia sono chiusi da mesi cinema, teatri, sale da concerto, musei, luoghi della cultura ben più importanti del festival della canzone, ma c’è chi insiste, a cominciare dal presentatore della manifestazione, il popolare Amadeus, che ha detto lapidario: “Non farò un festival blindato” e tanto meno accetterà di spostare la data, ed ha suggerito una curiosa alternativa: non potendo aprire al pubblico pagante la sala del teatro Ariston (che non vale certo più della Scala chiusa da mesi) si facciano entrare in platea i “figuranti”, cioè quelle persone che da anni affollavano gli studi televisivi  pronti all’applauso a comando. Ma i figuranti non sono uomini e donne come gli altri esposti al rischio di contrarre il coronavirus? “Basta fargli il tampone!“ ha spiegato pronto Amadeus.

A sostenere la tesi del pubblico per così dire professionale (ma sempre pubblico è) ci sono ovviamente i grandi interessi legati alla kermesse canora; la Rai che da sempre ha nel festival di Sanremo l’evento di maggiore ascolto (in quei giorni le reti concorrenti ripiegano sui cartoni animati giapponesi) e soprattutto le case discografiche che non vogliono perdere la più importante vetrina delle novità. Perché allora non spostare di qualche mese la data del festival?  I giapponesi rimanderanno di trent’anni le loro Olimpiadi, noi non ci possiamo privare del pubblico a Sanremo? Una questione di lesa maestà non da poco. La sola cosa di cui molti telespettatori dovrebbero esser grati al coronavirus è di aver eliminato il pubblico da alcuni programmi di varietà o di approfondimento. Oggi è un’esigenza imposta dalle regole sul divieto di assembramento, ma potrebbe domani diventare una bella novità che rivoluzionerebbe molti programmi televisivi condizionati e appesantiti dalla presenza del pubblico in studio.

Non si sa chi ha cominciato, tanti anni fa, col mettere il pubblico a fare da contorno alla scena principale del programma televisivo. Forse l’idea era venuta come alternativa agli applausi registrati che imperversavano nei programmi di importazione e che ancora oggi sopravvivono in alcuni telefilm del pomeriggio.

Poi, la presenza del pubblico è dilagata: oggi senza pubblico che applaude a comando vanno in onda solo i telegiornali, i servizi speciali di approfondimento giornalistico, ma non i  talk-show, che anzi ne abbondano. Si distinguono Otto e mezzo condotto da Lilli Gruber su La 7, Atlantide di Andrea Purgatori sulla stessa rete e pochi altri programmi.

C’è da chiedersi: a che serve il pubblico in uno studio televisivo? A sottolineare con fastidiosi applausi a comando la fine di una frase dell’ospite di turno, una battuta meno ovvia del solito, un momento felice del dibattito. Sono applausi ordinati da quello che nei teatri era una volta il capo-claque che al pari del direttore d’orchestra dirigeva i fanatici del loggione, e come tali non sono spontanei, durano più del necessario, spesso coprono le voci del conduttore e dei suoi ospiti e si vede che sono “prezzolati”. Per assicurarsi il pubblico, gli studi televisivi pubblici e privati sono, infatti, disposti a pagare una piccola somma agli aficionados che apposite agenzie reclutano fra massaie, pensionati, sfaccendati che così arrotondano il bilancio familiare da una parte e dall’altra danno sfogo all’impellente esigenza di apparire sul video, sia pure sullo sfondo.

Dopo il famoso decreto governativo che tuttora proibisce gli assembramenti, Rai 1 ha opportunamente sospeso la registrazione di nuove puntate dell’Eredità, un programma di grande ascolto e quindi da tenere in massima considerazione, e ha rimediato mandando in replica alcune vecchie puntate, con l’avvertenza della piccola scritta in alto a destra del teleschermo “programma registrato prima del DCPM del 4 marzo”. Ma quando ha dovuto riprendere a produrre nuove serate (e devolvere a beneficio della Protezione Civile l’importo delle vincite in gettoni d’oro dei concorrenti) ha dovuto fare a meno del pubblico, senza per questo che il programma ne risentisse, anzi è senz’altro più snello e gradevole. Allora? Ci voleva il coronavirus per liberare certi programmi televisivi dal fastidio del pubblico e dei suoi stentati applausi? Si dice che quando la pandemia sarà finita, non tutto tornerà come prima. Liberarci dagli applausi a comando in tv sarebbe già una piccola cosa.

Una volta i battimani erano solo per gli attori in teatro e per i cantanti all’Opera. Si applaudiva ai comizi in piazza, alla carrozza del re che fendeva la folla plaudente, al dittatore che parlava dal balcone. Oggi si battono le mani ai calciatori in campo, ai tennisti al Foro Italico, ai cavalieri in piazza di Siena. E, mai visto prima,  si applaude in chiesa: ai matrimoni, ai funerali, alle cresime, ai battesimi.  E, come s’è detto, negli studi televisivi. Sono applausi insinceri ma pretesi dai conduttori dei programmi per garantirsi una copertura in caso di una defaillance improvvisa: la conversazione che langue, un ospite indeciso, una pausa forzata e allora “Un bell’applauso!” che copre tutto. Grazie a Dio, l’informazione, quella vera, non ha bisogno di applausi.

Di una notizia una volta si diceva: l’ha detto la radio, deve essere vero. Poi la televisione ha ulteriormente ratificato l’autorevolezza della notizia, fino ad allora affidata alla carta stampata. Oggi c’è il web, che sembrava dovesse spiazzare ogni altro strumento d’informazione. Non è così: il dilagante fenomeno delle fake news ha in qualche modo penalizzato quel canale pseudo-informativo. E la televisione si è ripresa una bella rivincita. Dai dati più recenti risulta, infatti, che l’emergenza determinata dalla pandemia da virus ha rafforzato la carta stampata e i telegiornali: due fonti di notizie una volta in concorrenza fra di loro, oggi non più. I dati di ascolto dei telegiornali sono in ascesa, le copie dei quotidiani non registrano ulteriori cali nelle vendite, al contrario. Segno che il lettore-telespettatore ha fame di notizie, quelle vere, attendibili e al web lascia gli sfoghi nevrotici dei mitomani, di quelli che credono che la terra sia piatta, che le scie chimiche siano mandate da chi vuole sterminare l’umanità, dei negazionisti di tutto, dalla Shoa allo sbarco sulla Luna, oggi del virus e della validità del relativo vaccino.

Vuoi mettere i bravi mezzi-busti del tg che non sono mai stati tanto seguiti? Anche senza applausi. Tutti seri professionisti: dalla intrepida, scarmigliata Giovanna Botteri della Rai (che è stata insultata sul web) al dilagante Enrico “Mitraglia” Mentana de La 7, dall’autorevole Antonio Di Bella di Rai News 24, al compìto Francesco Giorgino del TG 1, che sembra si sia beccato il coronavirus con un’intervista, ironia della sorte, proprio al ministro della salute Speranza. (Ma questa, forse, è una fake-news!)

Ma il problema resta il festival di Sanremo: lo rimandiamo al prossimo anno? O facciamo l’intera Liguria zona bianca? Attenzione: i giapponesi ci guardano.


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