La sconfitta di Donald Trump e l’informazione americana

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Sono le 11.26 sulla costa orientale degli Stati Uniti di sabato 7 novembre, quando ormai il quadro è concorde e i media americani in sequenza assegnano la presidenza a Joe Biden. A New York, la gente si affaccia dalle finestre e grida di gioia, le auto strombazzano lungo le avenue, in meno di un’ora migliaia di persone si radunano a Columbus Circle, altre piazze si riempiono tra Brooklyn e Manhattan mentre Times Square diventa l’epicentro della festa d’America che si propaga verso la costa orientale.

La fine degli anni di Trump viene celebrata come un liberazione ma se Trump è sconfitto, il trumpismo è destinato a durare. Il palazzinaro di New York ha cambiato la politica americana per sempre e il suo resistere, “asserragliato” alla Casa Bianca, altro non è che un modo per restare sulla scena politica preludio ad una sua ricandidatura nel 2024 o più probabilmente del figlio Don Junior, assieme al probabile lancio di un canale tv dopo la rottura con Fox consumatasi in questi giorni.
Un modo per difendersi dall’assedio dell’inchieste giudiziarie e del vecchio problema dell’indebitamento del suo gruppo.
Sconfitto Trump, qual è lo stato di salute del giornalismo americano? In particolare quello televisivo è stato fortemente cambiato da questi anni di presidenza e non per il meglio.
La polarizzazione del Paese è diventata polarizzazione dei media, Fox News (una sorta di organo non ufficiale del trumpismo) è diventato un modello per gli altri network che hanno “editorializzato” i loro programmi, hanno ridotto il ruolo degli inviati sul campo, del racconto di un Paese grande e complesso, a favore di anchorwoman e anchorman che analizzano – dal loro personale punto di vista – i fatti della giornata e dialogano con esperti, analisti, politici tra il coro e il battibecco.
Fermo restando che gli opinionisti dei network usa sono selezionatissimi e legati da contratti di esclusiva (insomma non il circo di certa tv italiana che solleva il tendone ad ogni angolo dell’etere, qualsiasi sia l’argomento in discussione), questa è anche una scelta di business. “Editorializzare” significa spendere meno rispetto al racconto sul campo ma soprattutto significa sfruttare la polarizzazione del Paese, parlare non ad un pubblico generico ma ad una parte, ad una fazione, quindi ad una fetta di mercato facilmente fidelizzabile.
Se Joe Biden è il candidato presidente più votato della storia del Paese, Donald J. Trump è il secondo. I 71 milioni di voti che ha ricevuto sono la plastica rappresentazione degli Stati Divisi d’America. Il più grande compito di Biden – l’ha fatto capire lui stesso nel discorso di insediamento – sarà dialogare con l’altra metà d’America. E’ una fase che richiede una linea politica nuova, un linguaggio nuovo ma anche un’informazione diversa. La polarizzazione dell’informazione tv ha contributo alla perdita di credibilità del giornalismo, ha offerto il fianco alla (sempre vincente) narrazione di Trump sintentizzabile in: “io contro le elite dei media schierate con i democratici, con la palude di Washington”. Se questo per gli Usa è il tempo di provare a guarire le ferite nel suo corpo sociale, è anche l’ora di ricostruire un rapporto tra informazione e cittadini. E’ ora più che mai necessario visto che con la transizione al digitale negli ultimi 10 anni si è perso il 50% dei posti di lavoro nell’informazione americana, in particolare quella locale lasciando intere contee in balia delle fake news propalate via social media.

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