I MIEI SPECIAL SU FELLINI. Prima puntata

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PREMESSA

Si impone un’utile premessa lessicale, anzi gergale: ‘special’ non vuol dire nulla, è un neologismo catodico vagamente anglicizzante (per l’assenza della e finale) con cui “si connota un programma televisivo realizzato per una ragione o occasione particolare e non fa parte di una serie”. Aggiungo io: è un servizio filmato, a metà tra la cronaca e l’elzeviro, su un evento di spettacolo. Viene definito ‘speciale’ in quanto non rientra nei format canonici previsti dalla programmazione, chiamata anche palinsesto dalla vecchia signora di Viale Mazzini, Mamma Rai.

D’altro canto nei tempi ormai preistorici di cui sto parlando senza pudore, non esisteva neppure la parola format, giunta decenni più tardi in seguito all’espansione delle piattaforme televisive private e poi internazionali, sul mercato degli audiovisivi. Allora c’erano semplicemente le ‘trasmissioni’ e, ad ampliamento dei telegiornali, i ‘servizi speciali’. Come era stato per esempio “Un’ora e mezzo con il regista di Otto e Mezzo” di Sergio Zavoli, pioniere nel settore, il quale in seguito al terzo Premio Oscar conquistato da Federico Fellini, dedicò all’amico riminese una sorta di lungo ritratto artistico e biografico allo stesso tempo. Un prototipo in tutti i sensi, inventato dall’estroso cronista romagnolo dalla voce pastosa e suadente come un cataplasma. Zavoli chiamava anche “medaglioni” questo genere di ricostruzione a tutto tondo di un personaggio famoso, conferendogli una sfumatura di nobiltà, da galleria pittorica. Una metafora molto utilizzata dal servizio pubblico della RAI in programmi come L’Approdo, o di TV7, rubriche di rango dedicate alla cultura e ai suoi campioni.

Prima e dopo Zavoli, c’erano i cinegiornali, servizi di informazione e di costume che venivano proiettati nelle sale cinematografiche prima dell’inizio dei film. Erano prodotti dell’Istituto Luce, antesignano del genere, fin dall’epoca fascista; reportage caratterizzati da un taglio documentaristico e da un ritmo brillante, determinato anche dalla durata contenuta, una manciata di minuti. Il tipico resoconto del ‘cinegiornale’ aveva una lunghezza di 300 metri di pellicola (il contenuto di uno chassis) corrispondente alla durata di circa 10 minuti (1 minuto = 28,5 metri). Sulle orme dell’Istituto Luce avevano conquistato un proprio spazio la Settimana Incom, con un’agile impaginazione da rotocalco e un’attenzione particolare alla mondanità e alle cronache rosa; e buon ultimo era arrivato il “Settimanale Ciac” che durerà fino all’inizio degli anni Novanta. Parallelamente, già dalla fine degli anni Cinquanta, venivano messi in onda sul piccolo schermo i servizi di ‘costume’ dell’unica testata giornalistica televisiva, il TG1, con intervistatori microfono alla mano (detto familiarmente gelato per la forma a cono). Erano i mezzibusti in bianco e nero, dai nomi leggendari che ancora qualcuno ricorda: Ruggero Orlando, Carlo Mazzarella, Lello Bersani; a seguire Alberto Michelini, e poi tanti altri.

Questa era l’informazione riservata al mondo del cinematografo che tuttavia, a distanza di anni, rappresenta un insostituibile patrimonio di materiale d’epoca.

 

Il vero backstage cinematografico arrivò con Gideon Bachman, giornalista tedesco formatosi negli USA, dotato di intuizioni da cineasta e di notevoli capacità fotografiche, il quale realizzò il primo ‘dietro le quinte’ di un film usando una cinepresa leggera, quasi amatoriale, e tallonando Fellini durante la lavorazione del Satyricon (1969). L’eccezionale documento intitolato Ciao Federico! si impose come una novità assoluta e fu infatti un successone; imitato, copiato e saccheggiato senza scrupoli da chiunque si accingesse a raccontare Fellini mostrandolo al lavoro sul set.

Il successivo backstage, fu girato nel 1973, dagli aiuti di Fellini, Liliana Betti e Maurizio Mein, con il titolo Diario Segreto di Amarcord, in cui già si avverte un intento narrativo impresso verosimilmente dal Maestro in persona. La documentazione a tutto campo dell’opera in progress denota una composizione e una fisionomia decisamente cinematografica. Una ricerca di linguaggio che la promuove a un vero sottogenere.

Quando è arrivato il mio turno, Fellini veleggiava allegramente nel bel mezzo di un cataclisma produttivo; la realizzazione delle Memorie di Giacomo Casanova stava attraversando un periodo burrascoso, particolarmente stimolante, come è noto, per l’indole di Federico; durante il rondò dei produttori, l’alternarsi delle società interessate o disinteressate all’impresa, lo ‘speciale’ si presentò sotto l’aspetto di un divertente entr’acte, anzi un diversivo animato da una robusta spinta endogena di Fellini stesso.

Tutto prese inizio dalla solita inchiesta, punto di partenza – soprattutto rituale e simbolico – di ogni impresa felliniana. Qualunque idea da sviluppare doveva essere preceduta, accompagnata, arricchita sul campo da testimonianze di prima mano, interrogando chi poteva fornire valide e originali retroscena.

Su tale premessa, negli anni che seguirono, avviai per suo incarico altri progetti; uno dedicato alla Cronaca Nera per il quale bivaccai molte notti nella redazione del quotidiano romano Il Tempo, il più agguerrito sui fattacci di Roma; poi frequentai a tappeto Nicola Longo, un poliziotto della squadra mobile che ci introdusse nell’intero sottobosco malavitoso della Capitale; infine mi immersi per Federico nel mondo della pubblicità (di cui avevo però ampia esperienza diretta). Dopo aver partecipato alla sceneggiatura di Intervista raccolsi materiale su Venezia, Napoli, e gli altri soggetti che Federico mi affidava da sviluppare secondo la formula del ‘film in diretta’.

In apparenza il metodo di partenza era di indagine giornalistica sugli argomenti prescelti, in pratica, come il Mago ben sapeva, si trattava di una liturgia in grado di favorire il depositarsi della polvere d’oro della nuova favola in arrivo. Erano i sassolini bianchi di Pollicino, una magica traccia verso la capanna nel bosco. Che lezione!

 

LO SPECIAL SUL CASANOVA DI FELLINI

 

Non è più un segreto per nessuno, tra gli appassionati di cinema, che Casanova era stato a lungo per Fellini un progetto civetta, al pari del Decameron, L’Orlando Furioso, Gli dei dell’Olimpo, Venezia, L’America di Kafka. Ma in seguito al trionfo mondiale di Amarcord accolto con il quarto Premio Oscar (dopo La Strada, Le Notti di Cabiria e 8 ½), era stato Dino De Laurentiis a riesumare il film sull’amatore veneziano, convinto da sempre che l’accoppiata fra il più celebre libertino della storia e il massimo cineasta italiano costituisse un’accoppiata vincente e un’esca irresistibile per le Major Companies americane. Ci sarebbe stato a disposizione anche un bel mucchio di denaro se Federico avesse acconsentito ad utilizzare uno dei nomi di cassetta dello star system hollywoodiano, tra un’ampia scelta che svariava da Marlon Brando a Paul Newman, da Al Pacino a Robert De Niro, da Jack Nicholson a Robert Redford. Prospettiva quanto mai indigesta all’autore riminese che reagiva con la sua abituale azione di resistenza opponendo nomi italiani quasi a sfida: Gian Maria Volontè piuttosto che Ugo Tognazzi, o l’immancabile Mastroianni. Non riusciva ad assegnare una faccia al presuntuoso Cavaliere di Seingalt, mentre andava crescendo in lui una forte ostilità nei confronti del personaggio, che si aggravava di giorno in giorno in astio personale, in acida avversione. Perché?

Il regista si rifiutava persino di leggere la Histoire de ma vie che trovava “noiosa come un elenco telefonico”, irritante, ripetitiva, saccente, “trombonesca”, degna della più spregevole incarnazione dell’italiano, servile e altezzoso a un tempo.

Avevo ricevuto in regalo i quattro poderosi tomi dei Memoires, di cui scorrendo le pagine potevo scorgere e valutare i segnacci, i freghi, i segni di stizza, calcati, quasi solcati a matita da Federico con gesto irritato, collerico.

Il regista aveva rinominato l’autore veneziano, lo “Stronzone” (definizione poi utilizzata durante l’intera lavorazione del film) e l’appellativo, scritto a grandi lettere di suo pugno, dominava dal pannello di panno verde appeso sulla parete alle sue spalle, dietro la scrivania. Accanto, spillate con le puntine da disegno, c’erano le poche immagini disponibili dell’infelice protagonista. Un colpo d’occhio spiazzante e inevitabile per chiunque mettesse piede nell’ufficio, produttore compreso.

Intanto a parole e negli schizzi incessanti, Federico continuava a raffigurarlo come un individuo cancellato, vuoto, privo di una vera faccia, inespressivo, anzi espressivo come “un paracarro, un piede, un palo telegrafico”. Per interpretarlo ci sarebbe voluto un attore altrettanto vaniloquente, pieno di sé, dall’aspetto stolido e legnoso al pari di “un’ingombrante marionetta”.

 

Così mentre il film da farsi iniziava il solito palleggiamento tra avvocati e potenziali produttori, rimbalzando da De Laurentiis ad Andrea Rizzoli, e infine ad Alberto Grimaldi, Fellini alla ricerca di una chiave figurativa con cui affrontare l’Histoire de ma vie decise di riempire la momentanea disoccupazione avviando nell’inverno fra il 1974 e il 1975 una specie di inchiesta sul campo. E, fedele alla sua radicata convinzione secondo la quale “qualsiasi regista dovrebbe passare prima dal giornalismo”, diede incarico a me e Liliana Betti, suoi discepoli prediletti, di svolgere un’indagine su come l’archetipo di Casanova fosse sopravvissuto attraverso tre secoli nella cultura e nei cromosomi degli italiani. Il nostro compito era di ricercarne le tracce endemiche, da un lato attraverso i più celebri latin lovers dell’aggiornato ‘gallismo’ nazionale, e dall’altro appoggiandoci al giudizio di studiosi ed esperti della materia.

Fu così che cominciammo a intervistare, prima al magnetofono e poi filmandoli, gli infaticabili professionisti della seduzione, sia playboy internazionali come Gianfranco Piacentini (fortunato primo marito di Laura Antonelli), sia i più ruspanti dragueurs da spiaggia, vitelloni e bagnini della riviera romagnola; senza escludere, in un precoce concetto delle pari opportunità,  le più recenti caratterizzazioni al femminile del fenomeno, impersonate da campionesse dello scandalo rosa sul tipo di Marina Lante della Rovere (poi Ripa di Meana) e altre rinomate collezioniste di scalpi maschili.

Fra gli intellettuali erano stati invece reclutati primo fra tutti lo scrittore Piero Chiara, devoto ammiratore e brillante biografo di Casanova, e a seguire Alberto Moravia, Roberto Gervaso, Franco Valobra, Bernardino Zapponi; fra gli esperti il sessuologo Luigi De Marchi (allora presidente dell’Aied), e lo psicanalista Ignazio Majore.

Man mano che la lavorazione procedeva Fellini non mancò di appassionarsi a quella estemporanea avventura cinematografica, e se inizialmente aveva deciso di ritagliarsi un ruolo unicamente di presidio esterno, assistente dei suoi assistenti (sic!), presto non resistette alla tentazione di metterci personalmente le mani: perché non approfittare della produzione in corso (affidata alla Cinemoon di Lamberto Pippia, il suo organizzatore generale), per allargare l’inchiesta anche agli attori che avrebbero potuto interpretare Casanova?

Detto fatto, dalle abitazioni e dagli studi privati degli intervistati, le riprese si spostarono armi e bagagli  a Cinecittà, con approssimative e parziali ricostruzioni in teatro affidate a Danilo Donati; oppure in alternanza, in ambienti opportunamente modificati (per la testimonianza di Mastroianni, fu scelto il ristorante La Vecchia Pineta di Ostia, trasformato a vista in una clinica psichiatrica) e il film assunse anche un titolo con tanto di enigmatico punto interrogativo:

E IL CASANOVA DI FELLINI?

 

Furono chiamati a raccolta i quattro ‘colonnelli’ del cinema italiano – Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi – più un veterano del pantheon felliniano, il francese Alain Cuny, ognuno di essi impegnato a vestire i panni del celebre amatore veneziano, delineandone l’aspetto che meglio si attagliava alle caratteristiche della propria personalità artistica. Olimpia Carlisi, musa del momento, fungeva da conduttrice e intervistatrice, provocatoria e abilmente svagata; l’unica del cast che sarebbe entrata a far parte dell’opera maggiore realizzata l’anno successivo, nel ’96, nel ruolo di una delle due sorelle entomologhe della cupa e inquietante sequenza svizzera.

Vittorio Gassman fu ripreso sulla scena e nel retropalco del Teatro Quirino dove in quel momento si profondeva nell’interpretazione del “Keen” e aveva accanto a sé Diletta D’Andrea, appena sposata in terze nozze. Il suo era di diritto un Casanova ‘mattatore’, vincente e vitalistico, appena offuscato da un’ombra di malinconia, straripante, immancabilmente ‘in scena’ per qualsiasi occasione dell’esistenza, famelico di vita e di lodi, di approvazioni, egocentrico, privo di dubbi e di scrupoli, sebbene, dopo tante conquiste, comicamente vacillante nella memoria.

Alberto Sordi, in costume settecentesco, animava il carattere a tutti ben noto del maschio in fuga da ogni responsabilità e da ogni legame, soprattutto matrimoniale: “E che me sposo a fa’? Me metto in casa una sconosciuta?”. Un vitellone vanesio, opportunista, dileggiatore, classico italiano mammone che non riesce a superare lo stadio dell’adolescenza mimetizzandosi in un gioco sempre più irrancidito e accidioso di coureur de femmes, di infingardo goloso e pigro. “Guarda, Federì, maschio, raffinato, non so’ io Casanova? Preciso a lui, uguale!” S’era impossessato del personaggio e davanti a uno specchio di scena solfeggiò su una rapida bozza di testo, un monologo esilarante e gustosamente autoironico.

A Ugo Tognazzi spettò la parte, inevitabile, del dongiovanni gaudente, edonista, bon vivant, tetragono esemplare gastrosessuale, che gusta le donne come un ingordo banchetto, allergico a ogni problematica intellettuale. Per lui fu infatti ricreata da Danilo Donati, a Cinecittà, un’immensa tavola imbandita di cibi rigorosamente approntati e cucinati su ricettari settecenteschi, che induceva l’attore a declamare. “… quel sapore, quel profumo di putrefazione, tanto caro ai buongustai.”

Alain Cuny, era l’attore della Comedie Française, sacerdote di Racine e dei classici, abituato a pesare ogni parola al punto che nel recitare – ironizzava il suo collega François Perrier – “fra una parola e l’altra fa in tempo a crescere l’erba”. Cuny doveva interpretare Casanova da vecchio, amareggiato, rancoroso, pomposamente tragico, un clown irrimediabilmente triste capace ormai di corteggiare un’unica figura femminile, quella della Morte: “Ho vissuto da filosofo e muoio da cristiano.”

La sequenza più lunga era stata scritta per Marcello Mastroianni, nei panni di un medico psichiatra che si aggira nella sua clinica, tutta al femminile; una delicata allusione di Federico a un progetto mai nato, un film sulla pazzia tratto dal romanzo autobiografico di Mario Tobino “Le libere donne di Magliano”.  Mastroianni accettava anche lui di mascherarsi da Casanova, di truccarsi davanti allo specchio, ma per interrogarsi sulla propria immagine riflessa, quella di un maschio sentimentale eternamente affascinato dalla donna sempre inseguita e mai raggiunta: “Un pianeta sconosciuto, una galassia inesplorabile”. Si prestava anche all’incontro, sulla spiaggia di Ostia, con una bellissima dama violoncellista, un prototipo di quella imprendibile Henriette che l’avventuriero veneziano elesse e idealizzò quale suo appassionato e unico amore. “Le donne sono convinte che Casanova sia un mostro, un infedele, un traditore. – Dichiarava Marcello. – Io non credo che fosse così, anzi Casanova era fedele, fedelissimo alla donna, all’ideale della femminilità…”

 

Dunque tante facce di un solo personaggio, a cui Fellini cercava non di assegnare un carattere oggettivo, storicamente attendibile, quanto verosimilmente un riflesso più privato; si sforzava di rintracciare nel protagonista un inedito ritratto di sé stesso, agendo al suo solito da giocoliere, da abile prestigiatore. Come in tutti i suoi film. L’approssimarsi dei sessant’anni l’aveva disorientato e reso ancora più impaziente di sempre: “Fino a oggi – ripeteva – ho vissuto un’unica età indefinita, sempre uguale – vent’anni? trenta? – non mi ero mai preoccupato degli anni che passavano, indugiando in una lunga stagione indistinta e immutabile. Adesso che si avvicinano i sessanta, avverto improvvisamente che la festa sta finendo, che si apre un nuovo capitolo, una diversa condizione a cui non mi sento preparato.”

Ritornava spesso sul tema, recalcitrante a gettarsi nel nuovo impegno che lo attendeva, che gli avrebbe ipotecato un’altra rilevante porzione di vita; un racconto semi privato in cui stava faticosamente trasportando il materiale di un immalinconito bilancio. Nasceva una delle sue più struggenti e toccanti confessioni sul mistero femminile che era sempre stato, e continuava prepotentemente ad essere, l’alimento irrinunciabile della propria vitalità artistica.

Lo Special, firmato per la fotografia da Peppino Rotunno e per le scene da Danilo Donati, e musicato da Nino Rota con un tema originale e palpitante eseguito personalmente alla spinetta, fu subito acquistato da Paolo Valmarana per la RAI, le cui Teche ancora conservano una copia del filmato un po’ alterata nei colori ma integra e pienamente trasmettibile.

Riunendo insieme il dossier dell’inchiesta e la successiva sceneggiatura, fu composto anche un libro che Erich Linder, il leggendario agente letterario, opzionò e affidò per la stampa alla Casa editrice Bompiani con un titolo a sé: Casanova rendez-vous con Federico Fellini.

Di lì a pochi mesi Fellini iniziò la laboriosissima impresa della trasposizione dei Mémoires, visionaria e in gran parte inventata, affidando all’outsider Donald Sutherland il ruolo di Giacomo Casanova. Lo Special aveva assunto la funzione della sala travaglio, e il capolavoro aveva potuto finalmente vedere alla luce.

(fine prima puntata)


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