Sotto il pizzo la dannazione: Madame du Deffand e l’ennui

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Al mondo ci sono anche persone che non stanno al gioco: si annoiano a vivere, o meglio, si annoiano a morte. Tra questi martiri silenziosi della fatica di esistere è possibile rinvenire alcune vette irraggiungibili: sono quelli che hanno lasciato una testimonianza imperitura dell’epopea del mal di vivere, gli aristocratici dell’ennui. Paradossalmente, sono gli stessi che il mestiere di vivere lo hanno saputo praticare con la massima raffinatezza. Marie-Anne de Vichy Chamrond marchesa du Deffand, la grande salonnière nella Parigi della metà del Settecento, amica e corrispondente di grandi personalità della sua epoca (le sue lettere a Hénault, Montesquieu, d’Alembert, Voltaire, Walpole furono pubblicate per la prima volta integralmente nella Correspondance complète de la marquise du Deffand avec ses amis, nel 1865) è una donna squartata viva dal tedio e resa insonne dalla lucidità. Nata nel 1697 in pieno regno Luigi XIV, con Voltaire condivide un privilegio di longevità al quale non aveva aspirato: muore nel 1780, sotto Luigi XVI. Tormentata dal duplice flagello della lucidità e della passionalità, cieca, insonne, a sessantotto anni conosce Horace Walpole, di vent’anni più giovane e lei «che non aveva mai amato d’amore, che aveva avuto soltanto capricci e nessun romanzo… questa moralista dall’umore satirico divenne di colpo tenera, commossa e divertita, di una sollecitudine attiva, appassionata; non si appartenne più» – così Sainte-Beuve[1].

Percorrendo le lettere indirizzate a Voltaire, con il quale intrattenne uno scambio epistolare ininterrotto dal 1759 al 1775, si capisce che la marchesa viveva come più carnalmente non si potrebbe la corvée del respiro. In lei non c’è traccia della disperazione così come la intendiamo noi oggi, afflitti come siamo già alla nascita dal mal di vivere, malattia oscura che avrebbe segnato indelebilmente l’Ottocento e ancora di più il secolo breve. Non vi troviamo il piombo della cupezza. C’è del disgusto, certamente, ma è un disgusto che scaturisce da un eccesso di gusto e da una ferocia intellettuale che non ammettono sterili compromessi e facili compiacimenti. La pungente ironia va a braccetto con il bon ton e l’amara disillusione non sconfina mai nel piagnisteo. Il commento caustico è una sferzata all’assenza di immaginazione che contraddistingue il cinismo e la pedanteria dei contemporanei:

Non c’è più allegria signore, non c’è più grazia. Gli sciocchi son piatti e freddi, non sono assurdi e stravaganti com’erano un tempo. Gli intelligenti sono pedanti, corretti, sentenziosi. Non c’è più nemmeno gusto; insomma non c’è più nulla, le teste sono vuote, e si vuole che lo diventino anche le borse… (…) Mandatemi, signore, qualche bagatella, ma niente sui profeti: do per avverato tutto quello che hanno predetto.

Dei lamenti di un Giobbe o di un Geremia, Madame du Deffand non saprebbe cosa farsene. L’unica Bibbia ammessa è quella del bel esprit di cui Voltaire rappresenta l’unico profeta, «il solo ortodosso del buon gusto».

Madame du Deffand respira la disillusione a pieni polmoni, ragione per cui è sempre alla ricerca di qualcosa che le possa sollevare e rallegrare lo spirito, di qualche sana frivolezza che faccia da contraltare alla desolazione di un mondo fatalmente disincantato, assoggettato a un’atavica infelicità:

Tutte le condizioni, tutte le specie mi sembrano altrettanto infelici, dal pesce angelo all’ostrica; il brutto è essere nati, disgrazia di cui si può dire che il rimedio è peggiore del male.

[…]

Mi dite di desiderare che io vi faccia parte delle mie riflessioni. Ah! Signore, cosa mi chiedete? Esse si limitano a una sola, ed è ben triste: che non c’è nella vita, a prenderla bene, che una sola disgrazia, quella di essere nati. Non c’è nessuno stato, qualunque possa essere, che mi sembri preferibile al nulla.

Il suo disinganno non si trasforma mai in arroganza né tantomeno in rassegnazione e rinuncia. Molto più tardi, Baudelaire avrebbe parlato di estasi e orrore della vita. Madame du Deffand brama il nulla ma ha orrore della morte:

Quanto a me, signore, lo confesso, ho un solo pensiero fisso, un solo sentimento, un solo dispiacere, una sola disgrazia, ed è il dolore di essere nata; non c’è nessuna parte che si possa recitare sulla scena del mondo alla quale non preferisca il nulla, e ciò che vi sembrerà davvero incoerente è che, quand’anche avessi la massima certezza di dover rientrare su questa scena, la morte mi farebbe pur sempre orrore.

L’incoerenza alla quale allude la marchesa è il palpitare nelle sue parole di una fresca vitalità e di una energia impetuosa, malgrado (o proprio grazie a) il pensiero fisso del nulla.  E si sa che i disperati debbono la loro condizione non a una carenza bensì a un eccesso di vitalità che, bruciando fulmineamente tutto intorno a sé, ben presto si ritrova senza materiale di combustione: «Mandatemi qualche voce del vostro dizionario, ve lo chiedo in ginocchio. Abbiate cura del mio divertimento; sono l’anima più trascurata del purgatorio di questo mondo».

È la noia il demone con il quale Madame du Deffand è costretta a passare le sue giornate e le notti insonni («Dormite, signore? Quanto a me, non chiudo occhio, e questo modo di prolungare la vita mi rincresce enormemente»). La noia non si può sconfiggere ma uno spirito avveduto può almeno mitigarne gli attacchi semplicemente schivandola, laddove ciò sia possibile: «Non ho letto il discorso dell’Accademia, non ho potuto decidermi a farlo; è sufficiente la noia che non si può evitare, andarla a cercare è da pazzi».

A Voltaire chiede con insistenza rimedi e distrazioni per portare avanti la lotta senza quartiere all’infido nemico: «Sarò sempre felice di ricevere da voi istruzioni e ricette; datemene contro la noia, ecco quello di cui ho bisogno».

Madame du Deffand, la marchesa che affascina con la sua defascinazione, la vecchia atrabiliare, la passionale cortigiana del dubbio avverte: «È una follia preoccuparsi del domani». Dal canto suo, si «accontenta, scaccio la tristezza per quanto possibile, mi do a ogni genere di dissipazione;» Non si aggrappa alla sterile e passiva geremiade ma piuttosto al folle dispendio accompagnato a una sofisticata frivolezza. Sono questi i suoi rimedi a quel lungo morire che è la vita: «insomma, tutto considerato, sono meno infelice di quanto vorrei». Se è lecito parlare di una filosofia della du Deffand (che era animata da un odio viscerale contro la «livrea» dei filosofi), la marchesa lo stabilisce nei suoi termini peculiari, intrisi di una bucolica perentorietà: «Se è la filosofia che dà il disgusto del mondo, sono una grande filosofa. Nulla mi trattiene qui, e non ho per restare altre ragioni se non quelle che ha la capra: dov’è attaccata, occorre che bruchi».

A ben guardare, di ragioni per rimanere in questa valle di lacrime, Madame du Deffand ne aveva almeno due, le più importanti: l’amicizia (O divine amitié! félicité parfaite! etc. – scrive a Voltaire citando i versi di quest’ultimo) e l’amore mentre l’antidoto più potente contro il cafard non poteva che essere la lettura: «leggo dalle sei alle sette ore al giorno o per notte, e ho esaurito tutto»; «non so più cosa potrei leggere; eccetto voi, e gli autori del secolo scorso, tutto mi annoia a morte». «Leggo anche, a volte, qualche traduzione degli antichi e degli Inglesi, ma in base ai nostri bei discorsi di oggi non li posso sopportare; mi fanno dire apertamente che non posso soffrire i libri ben scritti. Preferisco passare per una persona dal gusto depravato che annoiarmi con le loro opere». «Monsieur de Voltaire, abbiate pietà di me! Tutti i vivi mi annoiano; indicatemi qualche morto che possa divertirmi».

Madame du Deffand coltiva il dubbio («Il dubbio mi sembra così naturale e saggio che non oso scagliarmi contro le affermazioni, per paura di lasciarmi indurre ad affermare io stessa») ma è passionale fino alla convulsione (a Walpole scrive di avere per lui «una passione sfrenata» e «che non c’è scandalo ch’io non sia pronta a dare»).

La relazione con Voltaire attraversa mezzo secolo e molto probabilmente non uscirà mai dai cardini di una reciproca ammirazione tra due spiriti affini, figli di uno stesso elegante disincanto. All’inizio della loro frequentazione, dopo un pranzo a casa della marchesa, lo scrittore le dedicherà questi versi:

Qui vous et qui vous entend

Perd bientôt sa philosophie

Et tout sage avec du Deffand

Voudrait en fou passer sa vie.[2]

Nella raffinata levità di amabili conversazioni, tra fruscio di eleganti vesti cominciava a germogliare rigogliosa la dannazione. Un secolo dopo, un’altra aristocratica, Elisabetta d’Austria, dissimulava il proprio «volto sotto l’ombrello e dietro il ventaglio, affinché l’idea della morte possa tranquillamente compiere in me il suo lavoro di giardinaggio». Ma questa è un’altra storia…

[1]Ch.-A. de Sainte-Beuve, Lettres de la Marquise du Deffand, in Causeries du lundi, Granier, Paris 1909, p. 195, cit in Madame du Deffand, Lettere a Voltaire, a cura di Lisa Baruffi, Bompiani, Milano, 1980.

[2]«Chi vi vede e chi vi ascolta / Dimentica presto la sua filosofia / E assai saggio con la du Deffand / Vorrebbe da pazzo trascorrere la vita» (Voltaire, Œuvres complètes, XIV, p.296) cit in B. Craveri, Madame du Deffand e il suo mondo, Adelphi, Milano 2001.


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