“Ne uccide più la lingua che il covid” – di Romina Gobbo

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“Ne uccide più la lingua che il Covid” parla della comunicazione giornalistica e istituzionale nei primi due mesi della pandemia. Parte dall’osservazione del linguaggio usato dai giornali (soprattutto nei titoli), propone una lettura e una spiegazione del perché c’è stato un utilizzo intenso di termini bellici, infine avanza ipotesi su come continuare a svolgere al meglio la professione di giornalista. In due mesi si è letto di bombe, polveriere, micce, esplosioni, economia di guerra, in riferimento alla malattia. “Contagi e paura: il morbo è tra di noi” (La Nazione). “Forza e coraggio per sconfiggere questo nemico invisibile” (Presidente del Consiglio Giuseppe Conte), “Nous sommes in guerre” (Presidente della Repubblica Francese Emmanuel Macron).
Poi la situazione ha perpetrato uno stigma: “Il virus killer che viene dalla Cina”, così come il nemico (cinese) che viene per uccidere. Ma è anche abbondato il sensazionalismo: “Non c’è più posto al cimitero”. Così la pandemia è diventata infodemia. La domanda che attraversa tutto il libro è: si tratta di un problema di povertà sintattica oppure l’uso di questo linguaggio rispondeva ad un determinato scopo? Ecco allora l’esortazione ai lettori di non accontentarsi, di cercare di andare oltre i titoli e le facili descrizioni; di esercitare, cioè, quel senso critico che permette di capire davvero il mondo in cui siamo.


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