Gli amanti sopravvivono alla condanna dell’eternità. Appunti su ‘Only Lovers Left Alive’ di Jim Jarmusch

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«What are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish? Son of man, / You cannot say, or guess, for you know only / A heap of broken images, where the sun beats,  / And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief, /And the dry stone no sound of water». Le parole di Waste Land, descrivono bene, al di là di tutti i significati che possono celare, e solo da un banale punto di vista superficiale, il senso ultimo di decadenza inarrestabile dell’Occidente. È questa decadenza che il film Only Lovers Left Alive scritto e diretto da Jim Jarmusch, in una imprevedibile contaminazione di generi, porta sullo schermo nel 2013. E lo fa partendo da uno sguardo inusuale, come gli è solito, senza pagare alcun pegno di coerenza se non interno alla narrazione.

Le macerie di una civiltà in cancrena, notturna, cupa, in una città abbandonata, dove l’umanità senza scopo percorre strade conosciute che pure finiscono in un baratro, sono lo scenario di questo racconto gotico e crudele e insieme gentile e lieve. La vita, contagiandosi senza speranza, scorre come il sangue, di cui le due lamie, i vampiri, sono quasi eternamente alla ricerca: sostanza stupefacente psicotropa che nutre e permette ad Adam ed Eve − questi sono i loro nomi, se ci fosse bisogno di comprendere il senso della loro esistenza − di sopravvivere. Sono i portatori di una cultura inimmaginabile e utile solo a se stessa. Adam è uno scienziato contraddittoriamente, come solo un ritornante lo può essere, positivista, e un musicista mentre la sua compagna, un’intellettuale senza una ragione specifica, avida di lettura di conoscenza e di bellezza. Che cosa c’è di più umano di un amore totalizzante per l’altro e per il sapere, per l’arte? Eppure è inumana l’origine di queste creature notturne. Scaturite da un tempo indeterminato e capaci di attraversare i secoli portandosi il dolore di una fine inevitabile sebbene così procrastinabile da somigliare all’immortalità.

I vampiri di Jarmusch, scrivono un racconto a due voci accompagnando lo spettatore in un’atmosfera insana, suadente e insieme acida e paurosa. Parlano implicitamente del conflitto inevitabile tra l’apollinea nobiltà dell’intelletto che è morale e invece il bisogno di appagamento fisico, di nutrimento, che espone all’istinto dionisiaco. Il corpo ha orrore della propria natura e lo supera con un totale disimpegno, come sceglie di fare la giovane Ava, la bionda Mia Wasikowska, sorella minore di Eve − per lei non conta nulla la sopravvivenza biologica di uno zombi, così i vampiri chiamano gli esseri umani, in una inversione materiale ed epistemologica di senso −, oppure attraverso un pensiero che interiorizzi il significato dell’esistenza. Eve parte da Tangeri dove si congeda dal vecchio amico Kit, sì, proprio il drammaturgo e poeta inglese Christopher Marlowe, lasciando nel proprio appartamento marocchino i dipinti di Basquiat e migliaia di volumi d’ogni epoca. Parte per raggiungere il suo amato nel nuovo mondo.

Il ritmo è lisergico, dettato dalla colonna sonora degli Sqürl, dove insieme al regista suonano Carter Logan e il liutaio e compositore olandese Jozef van Wissem. Eppure dalle canzoni di Wanda Jackson − una magnifica Funnel of love ancora eseguita dagli Sqürl, che introduce i primi fotogramnmi del film – da Under Skinor By Name dei White Hills che si esibiscono dal vivo. Fino alla splendita Hal che la femme fatale libanese Yasmine Hamdan interpreta in una scena indimenticabile, sprofondando e facendoci sprofondare in un torpore lento e bagnato, impotenti come le vittime dell’ultimo morso.

Se i mostri nella letteratura gotica appaiono spesso un passo indietro nella scala evolutiva, il vampiro, fin dal suo nascere con la creatura ingenua di Polidori e con il Conte di Bram Stoker, nella Miriam di The Hunger ma soprattutto nel film di Jarmusch, è invece un essere superiore, in grado di sconfiggere le leggi della natura, fino a rivaleggiare anche con la morte. Migliore come lo sono gli incubi e i succubi di Ludovico Maria Sinistrari, dotati di una natura più aerea degli uomini e quindi sublimata, eterea e trasparente alla potenza divina: possono esistere i vampiri senza Dio? Bram Stoker, risponde a questa domanda e umanizza l’idea del male ma è Olalla di Robert Louis Stevenson il testo che più è vicino all’idea del film, non di certo per la vicenda narrata − un classico racconto post-romantico, gotico, per lo scrittore scozzese, uno still-life pieni di allusioni al contemporaneo per il regista americano −, ma perché in entrambi i casi vi è un totale discostamento dalla classica idea di soprannaturale per trasformare il vampiro in fatto biologico. Adam compra il sangue da un medico corrotto, lo congela e lo mangia come un ghiacciolo, Eve se lo fa portare da una specie di ‘spacciatore’ che le fornisce il più puro. E se i vampiri di Stoker non fanno l’amore che attraverso la loro bocca, Dracula e le spettrali sorelle nel castello della Transilvania stuprano con un morso le loro vittime, Adam ed Eve possono giacere nudi dopo un amplesso in una delle immagini iconiche del film che mostra i corpi, splendidamente esangui di Tom Hiddleston e di Tilda Swinton. Dopo aver vissuto la vita come notte, e ancora torna il riflesso di Olalla, si addormentano indifesi nella pace del mattino, vicini in una devota dolcezza.

La fine della cultura occidentale è tratteggiata da un immaginario decadente che contrappone la casa di Adam, una dimora esternamente fatiscente, come deve esserlo quella di un vampiro, ma colma del fascino estetizzante di un dipinto di Gustave Moreau o di un brano di Huysmans, a una città dove grandiosi teatri sono stati trasformati in lugubri parcheggi mentre le luci spettrali dell’illuminazione stradale ovattano i colori per trasformare il mondo in un indistinto coacervo di ombre. Qui altre ombre, i vampiri, possono nascondersi inosservate.

E ancora è chiaro il contrasto tra il potenziale apollineo e le spinte dionisiache quando nell’ultima scena del film i due protagonisti, fuggiti da Detroit e ritornati nella casa di Eve in Africa, ormai stremati dalla ricerca infruttuosa di sangue, si riducono a doversi nutrire di due giovani trasformandoli, a loro volta, in ‘non morti’ nell’unico momento del film in cui, per un brevissimo istante, la natura ferina sommerge la loro umanità. Se il sesso è spaventoso perché attraverso un suo riflesso si carpisce la vita, e se la coscienza desiderante è un vampiro che, come Ligeia, protagonista d’una delle novelle più visionarie di Edgar Allan Poe − malgrado si presenti come altro è in realtà un racconto di vampirismo − succhia l’esistenza, conoscere una cosa vivente è ucciderla, perché possederla la prosciuga e insieme le può dare l’eternità, così solo gli amanti non possono morire.


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