Abu Mazen risponde con la fine degli accordi all’annuncio di Israele pronto a prendersi territori in Cisgiordania

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Dopo una settimana di tensione mai così alta negli ultimi anni, arriva la rottura definitiva tra Israele e Autorità nazionale palestinese.
Il presidente Mahmud Abbas, meglio noto come Abu Mazen, ha reagito duramente all’annuncio del governo israeliano di essere pronto ad annettere parte della Cisgiordania, dichiarando “finiti” tutti gli accordi con Israele e Stati Uniti.
La svolta era nell’aria visto che il nuovo governo di coalizione tra l’ex premier Benjamin Netanyahu e il leader del partito Blu e Bianco, Benny Gantz, fresco di giuramento, aveva confermato la posizione di Tel Aviv sulle annessioni. L’accordo di coalizione tra le due forze politiche prevede la possibilità per Netanyahu di presentare al governo una proposta effettiva entro il 1 luglio.
Una decisione in linea con il cosiddetto piano di pace per il Medioriente presentato nei mesi scorsi dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, fortemente criticato dai palestinesi e di una larga parte di osservatori internazionali.
Il presidente Abu Mazen, al termine di una riunione di emergenza dell’Anp a Ramallah, ha anche annunciato l’interruzione di ogni tipo  di cooperazione per la sicurezza.
La reazione internazionale non si è fatta attendere, con manifestazioni di grande preoccupazione di molti leader mondiali. A cominciare da Papa Francesco.
Il timore è che ormai il divampare di un nuovo incendio sia inevitabile.
Non si registrava un’escalation politica di tale gravità,  a parte le scaramucce del 2018 per una serie di misure adottate dal governo israeliano a sud di Gerusalemme, fra cui la demolizione di alcuni edifici e l’estensione dei progetti di insediamento ebraico, dall’annuncio dello stop di Israele ai colloqui di pace con i palestinesi dopo l’intesa raggiunta nel 2014 tra Hamas e Fatah. In quel caso, ancor prima che terminasse la riunione d’urgenza del gabinetto di sicurezza dello stato ebraico, convocata per discutere su come rispondere all’accordo, era attesa una reazione forte. A cominciare dall’adozione di sanzioni economiche nei confronti dell’Autorità palestinese.
Se quello che gli israeliani avevano definito  “un patto che attentava al processo di pace”, gli accordi saltati oggi l’hanno ”ucciso” definitivamente. Almeno questo è ciò che emerge dal duro confronto tra le parti.
L’utopia della soluzione “due popoli – due stati” non è mai apparsa più irraggiungibile.
Confrontandomi, tempo fa, con una cara amica italiana che aveva deciso di vivere a Gerusalemme ho capito quanto questa via fosse impraticabile.
Nonostante sia donna sensibile alla questione dei diritti umani, quando la discussione approdava sul piano delle sofferenze, su chi subisse il maggior peso di questa guerra, manifestava un radicale rifiuto a condannare ogni forma di dolore gratuitamente inflitto a tante vittime innocenti.
Come lei, molti altri ebrei non accettano il giudizio di chi guarda dall’esterno al conflitto isrealo-palestinese.
L’occupazione dei Territori dura da troppo tempo e crea disagi e costrizioni sia per i palestinesi sia per gli israeliani.
Il tempo stringe e il rischio di nuove violenze è dietro l’angolo, alimentato da reciproche diffidenze. Se prima Israele accusava i palestinesi di essere in profondo disaccordo tra loro rendendo impossibile una interlocuzione affidabile, quando la controparte ha trovato una parvenza di unità  ha dimostrato di non avere alcuna reale volontà di raggiungere un’intesa.
Con la leadership di Nethanyahu alcuni osservatori internazionali teorizzavano che alla destra potesse riuscire quello che l’opinione pubblica israeliana non avrebbe mai ‘concesso’ a un governo di sinistra. Il ritiro dai Territori occupati, nella storia dello stato ebraico, è stato opera di governi di destra, ma sempre con un secondo fine: Begin si ritirò dal Sinai nel 1982, sperando che Israele potesse rimanere a Gaza; Sharon aveva lasciato Gaza nel 2005 con l’obiettivo di consolidare la presenza in Cisgiordania.
Insomma un’interminabile partita a scacchi senza vincitori. Intanto in questi anni nel Paese è cambiato qualcosa: il 70% degli israeliani è consapevole che la rinuncia alle zone occupate sia inevitabile e l’80% ammette che preferirebbe la fine delle ositilità.
Ma è evidente che Gerusalemme sia, invece, profondamente divisa. Soprattutto sul problema dei profughi per i quali va trovata una soluzione che è da escludere, almeno per ora, possa essere il ritorno in Israele. Se prima era un’impresa ardua portare avanti il processo di pace, con la riunificazione palestinese e l’indebolimento dell’azione della Comunità internazionale, che dovrebbe ‘costringere’ Israele alla trattativa, appare quasi impossibile.
Occorrerebbe una nuova Camp David favorita da un deciso intervento di attori internazionali che al momento sono però presi da altre questioni, dall’emergenza Covid-19 alla crescente instabilità nel Sahel, terrà di conquista del terrorismo jihadista.
Quando  si parla del conflitto Israelo – palestinese, infine, è d’obbligo una riflessione sull’aspetto umanitario e sui diritti fondamentali di ogni essere umano
Senza voler sminuire le responsabilità degli estremisti che lanciano missili sul territorio israeliano che vanno condannati sempre senza se e senza ma, mi e vi chiedo che valore abbia la vita di chi vive nei territori occupati per Israele?
Vi siete mai soffermati a pensare su quanto accada ai civili, coloro che con la politica e la lotta armata non abbiano nulla a che fare? Pur di eliminare anche un solo terrorista i promotori degli attacchi militari ‘mirati’ sono pronti a sacrificare i suoi vicini, che pagano con la vita colpe che non hanno.
A volte si tratta di ‘semplici’ errori’ (forse…) come nel caso di Cana, quando nel 2006 un attacco aereo israeliano sul villaggio fece strage di innocenti.
L’obiettivo era un edificio di tre piani in cui si pensava fossero nascosti alcuni pericolosi esponenti di Hamas. E invece in quel luogo si erano rifugiate decine di famiglie fuggite da Gaza in Libano. Sotto le macerie furono trovati una sessantina di cadaveri, 37 erano bambini.
Nella mia memoria, e credo in quella di molti, quel tragico episodio ha lasciato un segno che ha condizionato per sempre il giudizio su questo conflitto. E ad ogni singola azione di ‘giustizia’ sommaria messa in atto da qualche colono israeliano, che decide di reagire uccidendo quel palestinese che si opponga con forza all’occupazione della terra contesa, si rafforza il convincimento che le vere vittime siano i meno colpevoli di questa guerra.
Che sia l’esercito o un qualunque civile ad agire, il risultato è lo stesso: muoiono di continuo innocenti per mano di coloro che godono da parte del proprio governo di una piena libertà d’azione. Un governo che non pone nessun freno agli eccessi di violenza di cui è oggetto la popolazione di Gaza. Netanyahu parla ogni volta che può della spregevole cultura della vendetta e della brutalità di Hamas, ma poi a seppellire quotidianamente vittime incolpevoli sono uomini e donne che con il terrorismo non hanno nulla a che fare.
Quanti bambini sono morti finora a causa di bombe sganciate per ‘errore’? Quanti, ancora, moriranno perché si troveranno in un luogo dal quale si suppone possano operare, o siano solo di passaggio, i terroristi? Quante volte ancora si potrà strappare con la morte la terra a chi spettava di diritto?
Il mio pensiero a proposito del conflitto israelo – palestinese credo sia evidente. Come scriveva Dostoevskji in I Fratelli Karamàzov, “ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra, non solo a causa della colpa comune originaria ma ciascuno individualmente per tutti gli uomini e  per ogni singolo in questo mondo’.


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