Lo spettacolo dal vivo e il teatro al tempo del coronavirus

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Il teatro al tempo del coronavirus subisce e reagisce ma quanto è utile la sua divulgazione attraverso la multimedialità? La domanda è forse strumentale ma è per  cercare di capire le ragioni a torto o a ragione di questa anomala e per certi versi eccessiva proposta/offerta. Una categoria artistica come quella teatrale si è ritrovata a dover interrompere la sua attività con la chiusura forzata e l’impossibilità di proseguire la stagione in calendario, così come sta accadendo per la maggior parte delle professioni in Italia (con l’eccezione di quelle indispensabili come le sanitarie solo per citare una delle più esposte e a rischio per il Covid19). Ieri venerdì 27 marzo 2020 si è celebrata la Giornata mondiale del teatro a sipario chiuso. Maria Francesca Stancapiano recensisce  spettacoli e riflettendo su come gli artisti agiscono per sopperire l’impossibilità di lavorare spiega come la celebrazione a porte chiuse sia stata un’occasione inedita: « una giornata in cui il silenzio è cosa buona e giusta! Dal silenzio potremmo capirne la mancanza e l’essenza. È necessario pensare il teatro, non al teatro, purtroppo, chiuso. Pensare al silenzio, al vuoto, a come riempirlo dopo tutto questo incubo. Cosa avremo da raccontare e cosa da ascoltare?  È un virus, questo del covid19, responsabile di aver influenzato l’umiltà. Allora la domanda è: perché un attore, o un regista prima del dramma, “raccontavano” una storia? Per esigenza di farlo tramite una delle arti più nobili come quella del teatro, o per continuare a dire al fruitore “io sono qui, applaudi a me mentre interpreto, a me che ho scritto, a me!” Quando viene a mancare qualcuno o qualcosa, la prima domanda che ci facciamo è “perché mi/ci manca? Cosa?”. Non c’è tempo, adesso, di chiederlo perché molti hanno qualcosa da dire, da mostrare, da far sentire. Eppure è arrivato il momento di apparecchiare la cronologia soltanto al silenzio. L’attore interpreta, è  una cosa risaputa. Dovrebbe ora mentre si registrano i morti come ciliegie cadute da un albero, interpretare l’arte del silenzio, del respiro, della meditazione. Un training per l’anima in questo calvario capace di attecchire chiunque. L’attore è come il poeta, e il poeta sa restituire il “sentire”».

La drammatica emergenza ha creato una realtà virtuale mediata dove lo spettacolo dal vivo è stato mutuato da forme inedite di comunicazione e relazione con il “pubblico” a distanza. Si assiste ad una rincorsa frenetica nel divulgare in forme inedite le rappresentazioni per  intercettare l’attenzione e mantenerla affinché non si affievolisca il rapporto tra artista e spettatore. Il teatro senza pubblico non ha senso ma ora questo modo di proporlo ha suscitato polemiche tra molti addetti ai lavori ma non solo: attori e registi, critici teatrali hanno sentito la necessità di far sentire la loro presenza sui social e mezzi audiovisivi inflazionando la rete e creando anche disorientamento contrapposto a molti commenti di approvazione. Un singolare modo di fruizione mai sperimentato prima, se non con la televisione quando venivano trasmesse le commedie. Impossibile fare un paragone con quello che accade ora dove il multimediale ha preso il sopravvento.  Ha sostituito improvvisamente la messa in scena regolare e consueta a cui eravamo abituati.

Nicola Borghesi  è un attore e fa parte della Compagnia Kepler 452 di Bologna e spiega qual’è il suo punto di vista: «Io la penso in maniera diametralmente opposta a molti di cui leggo su facebook, riguardo il Coronavirus.  Parlano di psicosi perché secondo loro sarebbe, letteralmente, una patologia psichiatrica responsabile di rimuovere il piano di realtà. Secondo me la psicosi è quella di coloro che non accettano i dati di realtà, vaghi e imprecisi- va detto – che ci offre la scienza: ci troviamo di fronte ad un problema grave. Forse siamo talmente assuefatti allo schema secondo il quale appare una notizia artatamente gonfiata dai media per poi scomparire senza lasciare tracce dopo due settimane, da credere come le circostanze della storia si possano risolvere così. Non è così. A me pare invece come siano profondamente segnati dall’informazione proprio quelli che parlano di psicosi. Sono cioè talmente imbevuti di questo schema da supporre che anche la realtà li segua. I fatti, purtroppo, hanno una resistenza  molto più dura e talvolta non rispettano nessuna delle miserabili narrazioni di cui siamo artefici, né quella becera e scandalistica per racimolare due click/like in più, né quella che immagina un mondo in cui tutto va alla grande e c’è una sorta di vago complotto dei poteri forti per distrarci. C’è poi anche la quota di coloro, tra cui quella volpe di Agamben, responsabili di ritenere che tutto questo sia una sorta di esperimento politico di repressione di massa.  Mi pongo una  domanda – prosegue Nicola Borghesi –  reprimere cosa? Ma quando mi sono perso l’ascesa di questo movimento rivoluzionario che andrebbe fermato e controllato? Siamo forse alle soglie della rivoluzione e io non me ne sono accorto? No perché a me fino a ieri pareva di vivere in un paese in cui due forme feroci di neoliberismo più o meno identiche si confrontavano mascherate da progressisti da una parte e da sovranisti dall’altra.

Devo essermi perso qualcosa che giustifichi questa esigenza di controllo.
Il coronavirus non è una notizia scandalistica inventata da Libero per spaventare le nonne. È una grana seria che rischia, fondamentalmente, di mandare al collasso il sistema sanitario, punto sul quale, mi pare, concordino più o meno tutti  chi per professione se ne deve occupare. Questo non significa parlare di peste bubbonica, ma è in grado di produrre danni sistemici rilevanti.
E qua sta il secondo punto di questa faccenda: la totale disabitudine a ragionare un palmo al di là del proprio naso. Come se nessuna delle vicende del mondo riguardasse proprio me. Invece, questa volta, è proprio così, riguarda tutti noi, in quanto potenziali vettori di una cosa che uccide le persone. Il lettore giovane penserà: tanto non uccide me, il virus uccide solo i vecchi. No! se tu ti contagi, non ti fai niente ma contagi un altro magari anziano che poi muore.

E tu quale tipo di cittadino saresti? Mi da la sensazione come il  problema di essere dei buoni cittadini, non arrivo a parlare di bravi compagni, sia assolutamente secondario rispetto all’esigenza di continuare a condurre la propria vita, i propri affari, i propri interessi, i propri svaghi in modo esattamente identico a come li abbiamo sempre condotti. Leggo di molti miei colleghi artisti  dichiararsi vittime di questa incomprensione. A me, personalmente, sono saltate parecchie repliche, altre ne salteranno, perderò parecchi soldi, sarà un disastro. Un autentico disastro, enorme, che non so come gestire. Oltre al dolore di non fare quello che più mi piace: andare in scena. Però non mi sogno di pensare che sia un’ingiustizia o una violenza o un gesto dittatoriale chiudere i teatri. Penso che vada aperta una riflessione su quali siano le priorità delle cose da chiudere, sull’ordine e il modo in cui farlo, sul fatto che nelle prime pagine dei giornali non siamo nemmeno citati, su come vadano aiutati i settori più colpiti e il nostro sicuramente è quello più colpito, fragile e prezioso e dunque più meritevole di un urgente aiuto. Ma da qui a dire che i teatri dovrebbero rimanere aperti a differenza di scuole ed altri luoghi ce ne passa. È semplicemente un’istanza che dice: non me ne frega nulla delle evidenze scientifiche, di chi è fragile, del potenziale collasso del sistema sanitario, di chi ci potrebbe morire: il mio spettacolo è più importante. Questa forma mentis, credo, spiega almeno in parte la difficile condizione in cui versa il nostro settore. E non in relazione al coronavirus, da esiste già da tempo. Finiamola, per una volta, di occuparci del nostro specifico narcisismo e cominciamo a ragionare come sistema, rivendicando l’aiuto che ci spetta perché siamo, o ambiamo ad essere, una parte importante di questo paese. Pretendiamo ammortizzatori, solidarietà, aiuti, sistemi di riapertura concordati e smettiamo, vivaddio, di pretendere di continuare a fare i nostri spettacoli come se nulla stesse succedendo: perché sta succedendo qualcosa. Qualcosa che a un certo punto finirà, ma non domani. E il teatro, penso, dovrebbe anzitutto occuparsi di ciò che succede, essendo un arte che ha come suo fine far succedere delle cose. Tutto ciò fa emergere un dato potente: il privilegio. Siamo, in molti, talmente imbevuti nei nostri privilegi che appena ci viene impedito di fare esattamente come ci pare e piace, come siamo abituati a fare pensando immediatamente di essere vittime di un’ingiustizia. Qualunque limitazione della nostra libertà è di per sé un’ingiustizia, anche se avviene in nome di un bene leggermente superiore ad essa: la salute pubblica.  Più importante dei nostri spettacoli, dei concerti, dei momenti di socializzazione, convegni, degli spritz, per quanto spiacevole questo ci possa sembrare. La vita delle persone fragili lo è. Questo morbo è rivelatore per questo e presenta dei rischi sistemici, sociali, afferenti proprio a quella dimensione che più di tutte tendiamo a rimuovere: quella della comunità. E noi teatranti, se non ci occupiamo della comunità, della vita delle persone fragili, delle marginalità, delle ingiustizie, che cosa lo facciamo a fare, questo lavoro? Tutto questo accade mentre a pochi chilometri da qui ci sono i pogrom contro chi scappa dalle guerre imperialiste. Parliamone con loro cosa significa provare delle restrizione delle libertà personali».

Anche Simone Perinelli è un attore e si pronuncia con una breve sua riflessione: «sono tempi difficili. Ma si può vivere qualche giorno anche senza cultura.  Conosco gente per ideali politici di destra comunque arrivata anche a novanta anni. Piuttosto che surrogati come musei virtuali e teatro in video, approfittatene per stare con le persone che amate, guardate un bel film, camminate su lande desolate. Allontanatevi da voi stessi, stupitevi e sorprendetevi. Tornate diversi da prima. Riapriranno i teatri, i musei e tornerete a lamentarvi che non c’è neanche il tempo di fare l’amore».

Il tempo del silenzio e della riflessione. Il teatro è parte integrante della società e della cultura a cui dobbiamo tanto. La crisi tocca tutti e ognuno dovrà cercare di contribuire a ricostruire una nazione, un’identità e una comunità. Non è solo il teatro a soffrire.

Pensiamo solo a chi è ricoverato negli ospedali, ai lutti senza poter dare consolazione ai famigliari delle vittime. Cerchiamo di esprimere solidarietà a chi sta lavorando ma in condizioni drammatiche come ha spiegato con parole accorate Papa Francesco: «(…) È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo (…)».


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