Impariamo da questa crisi sanitaria. Usciamone più coesi, meno precari, più forti

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Vi scrivo da una città che paga, fino a questo preciso momento, un tributo di 92 morti e 710 contagi per il Coronavirus. Sono 14 i morti solo tra ieri e oggi. Persone a cui non è stato possibile fare un funerale in chiesa, per i credenti, o un ultimo saluto con parenti e amici. Numeri e storie che da queste parti, in Emilia, a Piacenza, non si vedevano dai bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. Vivo a 12 chilometri dal primo focolaio di Codogno. Fortunatamente, al momento, sono riuscito da freelance a coprire le storie e la cronaca sul coronavirus senza essere contagiato: tenere il livello di precauzione più alto possibile è l’unico modo per poter fare il lavoro di giornalisti in condizioni simili. Ed è nostro dovere proteggerci per svariate ragioni, non ultima il fatto che la buona informazione professionale, in momenti come questi, serve al Paese come a un malato servono i farmaci, come ha detto il sottosegretario Andrea Martella in un intervista a Repubblica e come ha scritto il segretario generale Fnsi, Raffaele Lorusso, in una nota inviata oggi alle agenzie.

Va ricordato che il nostro è stato l’unico paese UE ad avere chiuso i voli dalla Cina quando ancora Covid-19 era un titolo della cronaca dal lontano Oriente. Con il risultato, secondo gli esperti, di aver limitato la capacità  di controllo alle frontiere aeree. Tutti coloro che, per esempio, dalla Cina hanno volato a Milano per la “Settimana della Moda” hanno fatto semplicemente scalo in un altro aeroporto non cinese. In una prima fase della “storia” finora scritta dal Coronavirus in Italia, la “pancia” ha governato la “testa”.

“Fermiamo il Nord”. No, “Milano non si ferma”. “Riaprite tutto”. “Chiudiamo tutto, ma non i negozi”. E subito tamponi a tappeto, con laboratori di analisi intasati. “No, tamponi faringei solo a chi finisce in ospedale con insufficienza respiratoria”. E il “federalismo” del SSN ha mostrato la corda con confini amministrativi regionali di cui, ovviamente, il Covid-19 si è infischiato.

Viviamo una crisi sanitaria senza precedenti che ha portato con sé una crisi del lavoro e della produzione. E c’è una crisi nella crisi nel mondo del lavoro azzoppato da Covid. Le categorie di lavoratori che sono e saranno più coinvolte dalla situazione di chiusura di tutte le attività sono quelle con tipologie contrattuali atipiche: i precari, le partite iva, i famigerati Co.Co.Co. Non solo nel mondo dell’informazione, con pagine ridotte e committenze sparite. Nel settore dello spettacolo, del turismo e dello sport; e ancora in tutte le professione ordinsitiche (pensiamo agli avvocati) questa frenata per cause di forza maggiore mette tutte e tutti di fronte alla fragilità e alle contraddizioni del mercato del lavoro in Italia.

«La disponibilità dell’esecutivo a farsi carico delle difficoltà dei giornalisti, al pari di quelle delle altre categorie di professionisti, nei provvedimenti annunciati è un segnale importante. È auspicabile che rappresenti la premessa per affrontare, a emergenza conclusa, il tema della lotta al precariato», scrive il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, in una nota mandata alle agenzie. Questa è l’occasione per l’Italia di guardarsi allo specchio. E ritornare alla ribalta, a emergenza conclusa, con un’immagine più veritiera, equa e moderna di sé. LA iper-flessibilità del mondo del lavoro ora mostra il conto: come fanno i precari quando il lavoro, semplicemente, non c’è? Poche tutele e nessun diritto. E per quanto riguarda il settore dell’informazione, questo grido di dolore e di allarme è lanciato un giorno sì, e l’altro pure dalla Fnsi.

“I giornalisti italiani, a tutte le latitudini e senza distinzione di testata, stanno dando prova di grande professionalità, orgoglio e senso di responsabilità. Garantire il diritto dei cittadini ad essere informati, nello spirito dell’articolo 21 della Costituzione, è l’imperativo” scrive Lorusso. Tutto andrà bene “anche grazie all’informazione professionale”. Per questa ragione, fondamentale è il riconoscimento di servizio pubblico essenziale disposto dal governo per tutta la filiera dell’informazione. Un passaggio, sostenuto dalla FNSI, al quale dovranno auspicabilmente seguire provvedimenti di sostegno al settore, ma anche e soprattutto ai lavoratori autonomi e precari, che sono già i più colpiti sotto il profilo economico”. L’interlocuzione fra FNSI e Governo, sul punto, è costante. “La disponibilità dell’esecutivo a farsi carico delle difficoltà dei giornalisti, al pari di quelle delle altre categorie di professionisti, nei provvedimenti annunciati per le prossime ore è un segnale importante ed è auspicabile che rappresenti la premessa per affrontare seriamente – a emergenza conclusa – il tema della lotta al precariato». Impariamo da questa crisi sanitaria. Usciamone più coesi, meno precari, più forti.


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