Sul confine. Incontri che vincono le paure

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di Nunzio Galantino. Vescovo cattolico, Presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica.

Nel suo ultimo libro Nunzio Galantino – vescovo cattolico nominato da papa Francesco presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica – ripercorre i confini che ha attraversato: quelli eretti col filo spinato per segregare persone esuli e affamate dipinte come nemici delle nostre culture, economie e democrazie.

(intervista a cura di Valeria Brucoli)

Abbiamo intervistato Nunzio Galantino, vescovo cattolico già segretario generale della Cei e, nominato nel 2018 da papa Francesco, presidente dell’organismo di gestione economica che si occupa dell’amministrazione del patrimonio della Santa Sede: l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa).
Fra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo: (con Enzo Bianchi e Gianfranco Ravasi) – è Non muri ma ponti. Per una cultura dell’incontro e del dialogo, pubblicato nel 2018 da San Paolo editore nella Collana di Supplementi dei “Quaderni della Fondazione” Ernesto Balducci; Abitare le parole. Alla ricerca della consapevolezza di sé, (Edb, 2012); Sulla via della persona. La riflessione sull’uomo: storia, epistemologia, figure e percorsi (San Paolo, 2006); (con Antonio Trupiano) Dietrich Bonhoeffer. Storia profana e crisi della modernità (San Paolo, 2000). Il suo ultimo libro è Sul confine. Incontri che vincono le paure (Piemme, 2019), in cui l’autore prova a ripercorrere i confini che ha conosciuto: quelli eretti a Lesbo col filo spinato per segregare persone esuli e affamate, dipinte come nemici delle nostre culture, economie e democrazie; quelli che, in Romania, allontanano dai nostri occhi i bambini abbandonati; quelli, sottilissimi, dove abitano i malati sospesi fra la vita e la morte e, ancora, i confini rappresentati da quelle esistenze “periferiche” destinate a incarnare la società dello scarto. In un “diario pubblico” in cui invita a riflettere sui muri che abbiamo dentro di noi, sull’indifferenza, sugli sbarramenti innalzati per proteggerci da presunte minacce e che, invece, ci rinchiudono in orizzonti sempre più ristretti.

Citiamo dal suo libro: «Ho conosciuto persone che con la loro vita riescono a rendere grandi le cose piccole e permettono di non affogare». Ci può raccontare cosa intende con questa frase, e come è possibile trovare la salvezza nelle piccole cose di chi soffre?

Sicuramente lo “spettacolo” al quale stiamo assistendo in questi ultimi tempi, mostrato dai media e dalla politica non aiuta a vedere ciò che intendevo dire con quella frase. Siamo sempre più abituati a vedere persone che vengono mortificate e aggredite (non solo fisicamente). Tuttavia, è mia intenzione testimoniare che questo mondo non è “tutto il mondo”. I viaggi e gli incontri che ho fatto mi dicono proprio questo e sono convinto di condividere tale punto di vista con tante altre persone impegnate – nella propria quotidianità – ad incontrare l’altro.

Quando ci si guarda negli occhi, quando si incontra l’altro e la sua storia (non solo le sue pene, ma anche le gioie e le belle emozioni), allora davvero le cose piccole possono diventare grandi e quello sguardo può incoraggiare, quella stretta di mano, quell’abbraccio possono diventare l’inizio di una storia nuova.

Tutto ciò nonostante le parole scagliate come armi, nonostante il giudizio e la delegittimazione che stanno diventando purtroppo il linguaggio comune.

Il suo libro ci conduce sempre ai confini. Tra questi, per esempio, emergono quelli dell’Europa. La sua lettura è di un’Europa non è in salute. Cosa servirebbe per proseguire sulla strada giusta?

Non penso di essere l’unico a dire che l’Europa non sia in salute. Anzi, penso che tutto l’anti-europeismo che in questi ultimi tempi si sta sviluppando sia frutto proprio di una constatazione di un’Europa unita soltanto da una moneta. Una strada che ha mostrato tutti i suoi limiti e ora è particolarmente evidente che l’economia non può essere l’unico collante.
La strada da percorrere a mio parere è quella secondo cui il futuro deve essere segnato dal passato. Mi spiego meglio: ritengo che dovremmo ritornare alle motivazioni originarie che hanno spinto i padri fondatori a mettere insieme questa straordinaria comunità, unita da tanti ideali ma anche da prospettive e orizzonti inediti. Purtroppo col tempo questi orizzonti sono stati mortificati, molte volte addirittura capovolti.

Nel libro dice: «Mi piacerebbe che la violenza e la morte che ad essa si accompagna riuscissero a convertirci. Lo so, uso un termine religioso, ma lo faccio in modo laico». Ci dica di più a riguardo.

Il contesto in cui ho usato questa espressione è di grande sofferenza, che penso sia la stessa che ciascuno di noi prova in momenti di grande difficoltà. Quello che osservo, con molta preoccupazione, è che un certo linguaggio ma anche un certo approccio alla storia, alla realtà, alle persone, ci sta un po’ anestetizzando. Di conseguenza, anche le realtà più drammatiche che dovrebbero interrogarci in profondità, purtroppo ci lasciano indifferenti.

Quando parlo di questa “conversione”, parlo della necessità di ricongiungerci con il cuore, con la ragione e auspico che tutto ciò funga da “detonatore”, perché ritengo sia drammatico essere assuefatti – e quindi indifferenti – a fatti drammatici.

Fa cenno anche ai Corridoi umanitari, che è una progetto-pilota nato in ambito ecumenico dalla collaborazione fra la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia insieme alla Tavola valdese e alla Comunità di Sant’Egidio. Secondo lei è una strada da perseguire, forse anche in Europa?

Non è una strada. Secondo me, per come stanno le cose, è la strada da perseguire, perché assicura la legalità e toglie un’arma a coloro i quali banalizzano il tema della mobilità umana o addirittura la strumentalizzano per i propri scopi. Sono convinto del fatto che la legalità sia il primo passo verso una politica intelligente della migrazione.

Detto questo, è evidente che tutto questo impegno, va moltiplicato e soprattutto che i Corridoi umanitari rappresentano in questo momento uno sforzo concreto che lo Stato italiano sta facendo insieme alle comunità valdesi e riformate, e alla Chiesa cattolica. Inoltre, per questo progetto si stanno impegnando fondi dell’Otto per mille ed è bene che la gente sappia che tale risorsa sia impiegata per i Corridoi umanitari. L’Otto per mille fa anche questo. Serve a ridare speranza e un senso di civiltà a tutta questa realtà. Per questo penso che in questo momento sia una delle esperienze fondamentali, che mi auguro possa essere moltiplicata.

Nel suo libro ricorre il termine “riforma”: in quali occasioni e con quale senso lo ha adoperato?

Sicuramente ho usato questo termine in due momenti, una volta parlando dell’attività di papa Francesco, un’altra parlando dei cinquecento anni della Riforma luterana. Per quanto riguarda l’operato del papa, ritengo che Francesco stia in effetti riformando la Chiesa, per riportarla all’Evangelo. E a coloro che ancora osteggiano la direzione che sta indicando, vorrei chiedere: in che modo le parole e l’operato di papa Francesco sono contro il Vangelo?

Sono convinto che tutto ciò che Francesco sta facendo in questo momento sia nella linea del Vangelo. Probabilmente qualcuno ha messo al posto del Vangelo l’ideologia del Vangelo, e non c’è niente di peggio che ideologizzare il Vangelo e la religione. Quando si fa questo, purtroppo, ci si mette nella condizione di non capire davvero qual è il senso di quello che stiamo facendo e dicendo.

A fronte di una sempre più ampia secolarizzazione, qual è secondo lei il destino delle Chiese tradizionali? E che ruolo giocherà il dialogo interreligioso?

Comincio dalla fine. A mio parere, il dialogo interreligioso giocherà il ruolo di “convertire” le Chiese all’essenziale – il Vangelo – per superare, sebbene non “a piè pari”, tutto quello di cui storicamente ci siamo caricati inutilmente, danneggiandoci reciprocamente. Ciò che auspicherei è, prima di tutto, un cammino di liberazione da quelle cause che nella storia ci hanno fatto comportare come tifoserie di squadre opposte.
Il fine ultimo, per tutte le Chiese, è la testimonianza da rendere a Cristo e al Vangelo e non enfatizzare una qualsiasi appartenenza. Se ricordiamo questo, il mondo (Europa compresa) non potrà che trarne vantaggio. Al contrario di quello che dicono i “benpensanti” e i detrattori del dialogo interreligioso e del movimento ecumenico, penso che sia questa la strada per dare una corretta testimonianza del Vangelo e del messaggio di Cristo… Continua su confronti


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