Il reato di blasfemia in Pakistan. Secondo l’avvocato di Asia Bibi uno stigma anche per i difensori

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Il 24 Gennaio di ogni anno ricorre la Giornata internazionale dell’Avvocato Minacciato. La data scelta per l’iniziativa, che, a partire dal 2010, viene celebrata in tutto il mondo e in Italia, ricorda la strage avvenuta il 24 Gennaio 1977 a Madrid, in Calle de Atocha, quando un commando di terroristi neofascisti fece irruzione in uno studio di avvocati giuslavoristi uccidendone cinque e ferendone quattro.

Lo scopo della manifestazione è quello di attirare l’attenzione della società civile e delle autorità pubbliche sulla situazione degli avvocati in un determinato Paese – quest’anno il Pakistan, dove dal 2007 ne sono stati assassinati più di cento – al fine di aumentare la consapevolezza delle minacce cui sono esposti nell’esercizio della loro professione, troppo spesso anche alle nostre latitudini, a causa del luogo comune, stigmatizzato, peraltro, da diverse convenzioni internazionali, che li vorrebbe assimilati al loro assistito o alla causa che difendono.

Per l’occasione, su iniziativa dell’Unione delle Camere Penali Italiane ed in collaborazione col Consiglio Nazionale Forense – che ha proclamato il 2020 quale anno dell’avvocato in pericolo nel mondo – si è tenuta a Roma una conferenza alla quale ha partecipato Saïf ul-Malook, eminente avvocato pakistano, assurto agli onori delle cronache internazionali per aver assistito la cristiana Asia Bibi davanti ai tribunali pakistani dal 2010 riuscendo ad ottenerne dalla Corte Suprema  l’assoluzione  dalla condanna all’impiccagione per blasfemia e, per tale motivo, destinatario di minacce di morte che l’hanno costretto, nel novembre 2018, a rifugiarsi nei Paesi Bassi, salvo, poi, tornare ad Islamabad per difenderla con successo nel ricorso finale contro la decisione liberatoria, respinto sul finire del mese di gennaio dell’anno scorso, adempiendo, così, coraggiosamente al suo mandato fino in fondo e ad ogni costo.

Nel corso del suo intervento ha spiegato come il reato di blasfemia sia stato introdotto nel codice penale pakistano nel 1986, all’articolo 295C, che, nella sua versione originaria, sanzionava con l’ergastolo o, in alternativa, con la pena di morte chiunque insultasse il Profeta. Sull’onda, tuttavia, delle pressioni delle fazioni estremiste che non si ritenevano soddisfatte della previsione, sostenendo che la pena dell’ergastolo fosse contro il Corano, nel 1991 – a seguito di una sentenza della Corte Federale sulla Sharia, una Corte costituzionale che ha il potere di esaminare e determinare se le leggi del paese sono conformi alla legge della Sharia – la norma fu modificata nel senso di contemplare come unica pena la condanna a morte per impiccagione.

Con specifico riferimento al caso di Asia Bibi, una lavoratrice agricola cristiana di estrazione sociale molto umile, sposata e madre di cinque figli, arrestata nel 2009 con l’accusa di blasfemia a seguito di un diverbio con alcune sue colleghe di fede musulmana, l’avvocato ul-Malook ha ricordato come, data la risonanza planetaria della vicenda, il Presidente del Pakistan inviò a visitarla il governatore Salmaan Taseer, il quale all’esito dell’incontro rilasciò delle dichiarazioni fortemente critiche sul reato di blasfemia ed in supporto ad Asia Bibi provocando, così, la reazione delle componenti religiose del Paese che insorsero tacciandolo, anch’egli, di blasfemia ed auspicandone la morte. Che non tardò ad arrivare avendo il fanatismo religioso armato la mano di un poliziotto della sua scorta, successivamente riconosciuto colpevole dell’omicidio e condannato alla pena capitale, il quale, secondo l’avvocato ul-Malook, sarebbe oggi venerato come un eroe nazionale dalle frange più estremiste.

Quanto alla sua esperienza personale ha riferito che i processi per blasfemia – tanto per l’ammissione incontrollata delle prove d’accusa, quanto per la fortissima pressione e le minacce anche nei confronti dei giudici – in primo grado si concludono tutti con sentenze di condanna confermate, per più della metà dei casi, nei giudizi di appello ed avanti la Corte Suprema ed, in conclusione, ha rivelato, non senza amarezza, che per aver assistito Asia Bibi ed altri casi simili è stato accusato di essere un cattivo musulmano che difende gli infedeli e, per questo motivo, completamente abbandonato ed isolato, anche dai suoi stessi colleghi.

Della sua testimonianza, come spesso accade ascoltando anche quelle di altri difensori dei diritti umani, resta una sensazione di atarassica serenità, non rassegnazione, propria di chi sa di essere nel giusto ed è disposto a correre il rischio di sacrificare persino la propria vita pur di garantire al prossimo l’esercizio pieno ed effettivo dei diritti fondamentali che, come tali, spettano a tutti indistintamente. Con il monito alla società civile ed all’opinione pubblica circa la necessità non tanto di preoccuparsi, quanto, piuttosto, di occuparsi di chi, anche in Europa e nel nostro Paese, viene a subire minacce e violenze per il solo fatto di esercitare con coscienza, libertà ed indipendenza il proprio lavoro, specialmente se preposto a custodire la democrazia.

 

Al seguente link il video integrale dell’incontro con l’avvocato Saïf ul-Malook ed il dossier sulla situazione degli avvocati in Pakistan: https://bit.ly/2RfGrFS.


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