Piergiorgio Welby. Tredici anni fa chiedeva rispetto, dignità, misericordia. Gli vennero negate. Ma quel gruppo di suore…

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Un gruppo di suore. Piccole, silenziose suore, che si avvicinano al palco, le mani giunte, una breve preghiera, il segno della croce, poi spariscono, inghiottite dalla straripante folla che spontaneamente si è data appuntamento nella piazza don Bosco del quartiere Tuscolano di Roma. E’ quello che ricordo con maggiore nitidezza dei funerali laici di Piergiorgio Welby, il militante e radicale gravemente malato di distrofia muscolare.

Quattro giorni prima, la sera del 20 dicembre 2006, alle 23 circa, Piergiorgio, dopo essersi congedato da parenti e amici riuniti al suo capezzale, aveva autorizzato l’anestesista Mario Riccio a sedarlo e staccare il respiratore che lo tiene in vita. Tre quarti d’ora dopo, è dichiarato morto.

Tre mesi prima si era rivolto, con una lettera aperta, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: chiede che lo Stato italiano riconosca il diritto all’eutanasia. Il presidente risponde auspicando un confronto politico e che si legiferi per riconoscere che la volontà del malato, se chiaramente espressa, sia rispettata.

Torniamo a piazza don Bosco. La mamma e la moglie di Piergiorgio, credenti, chiedono sia celebrato in parrocchia. Con un burocratico e freddo comunicato del Vicariato (e diretta ispirazione del cardiale Camillo Ruini), la chiesa gli viene interdetta. Alla cerimonia in piazza partecipano migliaia di persone; tra loro, non a caso, evidentemente, quel gruppo di suore. Incarnano quella misericordia, quella pietà di fronte a una sofferenza senza scopo e senza speranza, che il Vaticano non sa, non vuole, non pensa di poter concedere. L’idea tetragona di una fede dogmatica sconfitta da “piccoli” gesti di suore che sanno cosa sia il dolore, e che non dimenticano il discorso della Montagna: un “manifesto” per credenti di qualsiasi fede, e anche – se non di più – per quanti questa credenza non la condividono.

Da allora, a livello legislativo, non si sono fatti particolari e soddisfacenti passi in avanti. I progressi, semmai, arrivano dalle Corti di Giustizia, che con le loro sentenze hanno progressivamente smantellato legislazioni concettualmente ignobili, praticamente dannose, inutili. E saranno anche “invasioni di campo”, come si dice; ma le “invasioni” si verificano per la semplice ragione che i giocatori in campo non giocano.

In Parlamento giacciono proposte di legge, ma non le si discute.

Nel frattempo il Vaticano esercita la sua pesante influenza e ribadisce la sua contrarietà a che si legiferi seriamente sulla questione del fine vita. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana, senza troppi giri di parole sostiene che “va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere anche per chi è malato e sofferente”. Per Bassetti “l’approvazione del suicidio assistito nel nostro Paese aprirebbe un’autentica voragine dal punto di vista legislativo, ponendosi in contrasto con la stessa Costituzione italiana”.

Sono questioni che riguardano la vita e la morte, la dignità e il rispetto di cui ognuno di noi ha diritto: questioni universali, e che volenti o nolenti riguardano tutti, nessuno escluso. Eppure la “politica” non le inserisce nella sua agenda; con cura le evita, elude. Non se ne parla, non se ne discute, non ci si confronta, non ci si scontra. Sui giornali e nelle televisioni, sia pubbliche che private, nessun serio dibattito, nessuna seria informazione, nulla: un deserto.

Sarebbe sufficiente buon senso, compassione, misericordia, nel senso più ampio. Quello visivamente mostrato da quel gruppo di suore andate a pregare a piazza don Bosco per Wlby, rifiutato dal Vicariato. Chissà se arriverà mai un giorno in cui quel precetto: “Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, troverà vera corrispondenza, concreta applicazione. Se si sarà trattati da cittadini consapevoli, e con il rispetto a cui ognuno ha diritto.


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