Il genocidio yazida, cinque anni dopo il calvario dei sopravvissuti continua

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Cinque anni fa, il 3 agosto del 2014, nella regione del Sinjar, Nord Iraq, l’auto proclamato Stato islamico si accaniva contro la più numerosa comunità del mondo yazida, un’etnia di origine e di lingua curda con religione propria, comunemente indicata come “adoratrice del diavolo”.

Tre settimane dopo, il 29 agosto, veniva scoperta la prima fossa comune che rivelava al mondo quel genocidio.

In quella grossa buca furono ritrovati i cadaveri di gran parte delle 3 mila vittime trucidate dai combattenti di Daesh che non solo massacrarono uomini e anziani ma rapirono donne e bambini per ridurli in schiavitù.

Molti degli yazidi fuggiti all’estero a causa delle persecuzioni subite in Siria e Iraq, ora che l’Isis è ridotto a uno sparuto gruppo di terroristi, stanno ora rientrando nei luoghi di origine. Come Ashwaq Ta’lo, una giovane donna rapita nel 2014 insieme a quattro sorelle e cinque fratelli nel villaggio di Kacho, nei pressi di Sinjar. Ashwaq, diciannovenne molto coraggiosa, viveva in Germania, a Schwäbisch Gmünd vicino a Stoccarda, dove aveva ottenuto l’asilo politico. Quando si è ritrovata faccia a faccia con l’uomo che l’aveva comprata a un’asta per 100 dollari, e tenuta come schiava per oltre tre mesi prima che riuscisse a fuggire, ha capito di non essere al sicuro neanche nel cuore dell’Europa dove aveva trovato rifugio ed è tornata in Iraq. Ma l’incubo per lei e il suo popolo non è ancora finito.

A raccontarla in giro per il mondo è Nadia Murad, premio Nobel per la pace nel 2018. Nadia aveva 21 anni quando nell’agosto del 2014 Nadia quando uomini armati giunsero nel suo villaggio, Kocho, radunarono tutta la comunità e uccisero 600 persone, tra cui 6 suoi fratelli. Lei, come le altre donne yazidi, fu catturata e destinata alla vita di schiava. Umiliata, picchiata, torturata con ustioni di sigarette e tizzoni, stuprata più volte, anche da più uomini contemporaneamente, quando è riuscita a fuggire ha trovato nella denuncia e nella campagna per la verità sull’eccidio della sua gente la sua unica ragione di vita.

Per lei, come per molti altri yazidi, la vita resta un calvario. Soprattutto per chi è ancora nelle mani dei propri aguzzini.

La fase più delicata arriva ora. Con l’approssimarsi della neutralizzazione degli ultimi combattenti di Daesh cosa accadrà ai  prigionieri?

Secondo un rapporto dell’organizzazione non governativa Human rights watch, “i crimini dello Stato islamico contro la minoranza yazida proseguono e restano ampiamente impuniti”.

Nonostante le forze irachene abbiano strappato al giogo del “califfato” il vasto territorio che controllava, non sono riusciti a liberare tutte le persone ridotte in schiavitù. Inoltre, rileva Hrw, i processi in corso per crimini commessi contro gli yazidi sono destinati a un nulla di fatto, gli imputati sono principalmente accusati di “appartenenza, supporto o assistenza allo Stato islamico”. Il rischio, denuncia la Ong, è che le prove del genocidio possano “perdersi, nel tempo nelle fosse comuni che le autorità locali tardano a portare alla luce”.

La popolazione yazida, nonostante le ripetute persecuzioni subite in epoca moderna ma anche in passato, è riuscita a mantenere viva la propria etnia nel territorio di Shengal dove è situata anche l’omonima “montagna sacra”, nella regione di Sheikhan solcata dal corso del fiume Tigri, che scorre in direzione Nord/Sud Ovest, segnando anche una diversità geomorfologica del paesaggio: da una parte la pianura alluvionale dall’altra le alte montagne che separano l’Iraq dalla Turchia e dall’Iran.
Proprio la valle del leggendario fiume, culla della civiltà occidentale, è stato il fulcro dell’esistenza di questo popolo.

Oggi, nonostante in quei luoghi abbiano subito esecuzioni di massa e siano stati costretti a sopravvivere oppressi da una permanente crudele sofferenza psicologica, è lì che gli yazidi vogliono continuare a esistere.
Anche se nulla potrà essere più come prima.


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