Inchiesta sulle carceri, una vera emergenza nazionale. Tre metri a testa se va bene

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La cella è un luogo desolante. Degradato. Ha odore acre che resta pregno su pelle, abiti e capelli. Si tira su con le narici, anche quando si vien fuori dalla galera. Nella cella le peggiori ore della vita. Si fa quasi tutto lì. Si mangia, si dorme, si cucina, si usa il water, si scrive, si sogna, si racconta di sé, si lava la biancheria, si guarda la tivvù, si ascolta la radio, si gioca a carte, si prepara il caffè, si ricorda, si fa finta di vivere, si vegeta. Talvolta, accadono lì, in cella, anche, inquietanti episodi di stupro, di violenze, di abusi, consumati in sordina. Soffocati da coperte e cuscini. Nascosti alla verifica della conta. Lasciano il segno, senza tracce per le perquisizioni. L’ambiente promiscuo agevola devianze e comportamenti violenti. Favorisce la follia, il suicidio, episodi di autolesionismo. Scrivere di detenuti e dei suoi modi di essere, di parlare e comunicare, significa andare a toccare con mano le contraddizioni della detenzione. Significa entrare nelle carceri sempre più inadeguate ad ospitare persone, cittadini italiani e stranieri. Significa snidare i numeri del sovraffollamento delle carceri e delle celle. Significa svelare privazioni e deprivazioni di un quotidiano deplorevole, disumano, scioccante. Significa coinvolgere l’opinione pubblica, la società civile, le autorità politiche preposte e non, ogni singolo cittadino, perché ci sia la giusta attenzione per quello che diviene sempre più una “discarica umana”. Un mondo a sè con vita disumana. Un mondo di numeri soli senza gli altri di fuori. Perché lì dentro tutto è letto, guardato, visto, sentito, percepito, attraversato, diviso dal binario del “dentro/fuori”.
Due mondi divisi dal concetto di punizione/rieducazione.
I detenuti presenti vanno ben oltre la capienza regolamentare. Quasi sempre. Va da sé che i numeri fluttuano e variano a seconda.
Le carceri sono davvero una vera emergenza nazionale. Tre metri a testa se va bene.
Le sbarre antievasione lasciano filtrare raggi di un sole a scacchi che non riscalda. Brucia. La luna non si vede mai intera quando è piena e le stelle ammiccano, divertite, un pò ad esserci e un po’ a non esserci. Nella maggior parte delle carceri, in cella c’è il water e nelle sezioni femminili il bidet. Il lavandino serve ad ogni cosa e le docce in comune, solo quando sezione di turno, una volta a settimana o due se non prevalgono esigenze di sicurezza che ne vietano l’uso. Piano cottura e di lavoro sono messi su nel migliore dei modi nella stessa cella. Le provviste mandate da casa o comprate allo spaccio sono guardate a vista e controllate. I detenuti cucinano, tutti o quasi, in cella. Si cimentano in ricette e pietanze che condividono al desco imbandito con rito maniacale. Coprono il lavabo. Ne fanno uno scrittoio o a seconda. In ogni cella un televisore. Si vive chiusi. Anche quando si passeggia nei corridoi della sezione o si é all’aria. Si legge, si dorme, si cucina, si mangia, si evade col pensiero e non solo, ci si sveglia. C’è chi l’abbellisce di propria arte, chi mette al muro figli in fotografia e donnine mezze nude tra i ritratti di mamma e sposa. C’è chi scrive pensieri e parole e chi riprende, coi ricordi, belle donne e libertà perse.
Pregiudizi tanti e pene detentive alternative poco attuate. Si distingue
qualche carcere modello che pone al centro la rieducazione dei detenuti per il reinserimento. In altri tanta pena e poca umanità. Solo carcerazione.
Le sensazioni provate il primo giorno di carcere sono indelebili. Come tatuaggi. Restano per sempre. Ne raccontano, in poesie e disegni, di ufficio matricola e presa delle impronte digitali. Un incubo quel suono delle chiavi girare nella serratura che si alterna al, nitido, pulsare del metallo percosso nelle sbarre. Suoni brutali e blindati sbattuti, nelle orecchie dei carcerati e nei ricordi di ex detenuti che ritornano, da volontari, per, dove sensibili direzioni, umanizzare il carcere. Luci accese nel cuore della notte e torce negli occhi per illuminare oltre la pupilla, guardare nelle palpebre, dentro, sotto, sino ad asciugare il cristallino. Ricordo lacerante è l’umiliazione della flessione, la procedura, di ieri e di oggi, all’ingresso, quando il detenuto viene invitato a spogliarsi e a fare una flessione per dimostrare, o fare accertare, che non nasconde nulla di illecito all’interno dell’orifizio anale. E’ una delle tante, continue, vessazioni umilianti che minano l’equilibrio psicofisico.
Ketty Volpe


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