25 aprile. La pedalina della libertà

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A Conselice, in provincia di Ravenna, da tempo è stato installato il monumento alla stampa clandestina e alla libertà di stampa. Una vecchia macchina da stampa a pedali, usata dagli stampatori clandestini durante la resistenza al nazifascismo, per informare la popolazione su quanto avveniva sul fronte del comitato di liberazione nazionale. Alle spalle del monumento, le lastre impresse con le testate dei giornali stampati nei rifugi sotterranei.

          Poco prima del 25 aprile di una dozzina di anni fa incontrai a Conselice il vecchio Snap. Era un lunedì. Da quelle parti, la campagna ravennate che sconfina nella provincia di Bologna, è una tavola piatta di terra secca. D’estate le distese di zolle buttano al sole i vapori che vedi balenare sotto gli occhi e perdersi laggiù dove vedi soltanto la terra e il cielo. Tutto intorno lievita il silenzio e senti soltanto il rumore del respiro, rotto ogni tanto dal gracchiare delle rane sperse nei fossi. Il sole, a mezzogiorno quando scosta la foschia, picchia sulla terra come un martello pesante, squarciando l’afa che piove molesta e bagna di sudore ogni cosa, con le ombre secche dai contorni decisi, riflesse nelle zolle di terra dure, come le pietre. Verrà l’autunno con le nebbie, garze velate, che rinchiudono le poche case e persone in un utero di silenzio. Lì, nel ventre della nebbia, verso l’inverno.

Pioveva quella mattina di aprile. Il vecchio Snap mi stava aspettando appoggiato ad una colonna del Comune, per far respirare un po’ le sue gambe malandate e incerte. Snap era il suo nome di battaglia, quando era partigiano nella resistenza di quasi tutto il paese. Questo signore dalla barba bianca, distinto medico di campagna, aveva un velo di tristezza che gli attraversava gli occhi. Ivo Ricci Maccarini, il partigiano Snap, quante volte sarà ritornato a quei giorni di guerra e resistenza in quella sua terra secca, sferzata dal sole e ammantata dalle nebbie nelle stagioni buie del freddo. Come quel giorno, giorno di guerra di quel terribile 1944, raccontato da un grande cronista del tempo, Guido Nozzoli in Quelli di Bulow. E rievocato da Snap.

Il gruppo di partigiani arrivò di pomeriggio a Conselice per preparare nella notte l’attacco alla caserma della GNR, la guardia nazionale repubblicana, inglobata all’esercito della repubblica sociale italiana, la RSI. Nel gruppo c’erano i ragazzi con maggior fegato e forze. Lampo. Elic, il comandante. Giannetto Bassi. Rocca. Picett. Giorgio, il russo Prestankoff. Ivan. Una quindicina di gapisti. E Snap, commissario dei sapisti, nella vita di sempre Ivo Ricci Maccarini.

Erano convinti di farcela. Ma il commando si ritrovò subito in trappola. I ragazzi, tra i campi, si trovarono intrappolati da un battaglione del nemico disposto in un cerchio pronto al rastrellamento. Da quel recinto armato non doveva scappare neppure una mosca. Elic capì subito che non c’era alcuna via di scampo e che sarebbe stato impossibile resistere all’attacco concentrico di quattrocento soldati, armati fino ai denti. Bisognava semmai tentare di sgaiattolare alla spicciolata “senza impegnare battaglia”. Rocca si inerpicò tra le fronde di un albero. Alcuni gapisti si confusero a pancia in giù, tra le piante in un campo di zucche. Quattro partigiani impegnati nella stampa clandestina, uscirono dal rifugio, le mani e i vestiti macchiati d’inchiostro, per distrarre l’attenzione dei rastrellatori nazisti affinché non scovassero la tipografia nascosta. Un partigiano, ormai distante dal rifugio, fu colpito ad una gamba. Ma i compagni non tentarono la fuga, gli restarono accanto per non lasciarlo lì, solo, in quel suo destino segnato. I quattro ragazzi furono catturati, fatti prigionieri e due settimane più tardi giustiziati al poligono di tiro, nella vicina Bologna.

Elic, Picett, Prestankoff, Ivan e Snap, nell’ultimo gesto di ribellione tentarono di aprirsi un varco tra gli oppressori. Giorgio, il russo, fu il primo ad essere massacrato dai colpi di raffiche e cadde a terra, con la bocca immersa in una pozza di sangue. Alcuni ragazzi si spostarono in un’altra direzione, a pancia in giù, a carponi nel fondo di un fosso, quando sentirono una scarica di colpi. Dario Negrini, il partigiano Picett, fu colpito al cuore da una raffica secca. Prima di stramazzare a terra – ricorda ancora Guido Nozzoli nel suo libro – getta il suo mitra a Snap: “Fallo cantare te – raccomanda -. Per me è finita”. I compagni trascinarono il corpo di Picett in una piantata di granoturco e continuarono ad avanzare verso la periferia della zona rastrellata.

Snap sanguinava. Con una gamba bucata da una pallottola di moschetto non riusciva a fare un metro che uno. “Elic, prendilo te il mitra e vai, scappa, lasciami qui”. Elic prese il mitra in mano, se lo mise a tracolla ed aiutò l’amico ad appollaiarsi su un albero spingendolo su con la forza dell’ira. Poi gli diede la propria pistola, come arma di estrema difesa. Elic fece un balzo a terra e continuò ad avanzare sventagliando colpi su colpi per tenere a bada i rastrellatori. Ormai era rimasto soltanto lui in quell’inferno, a sparare ai repubblichini. Ferito, continuava a sparare e a correre, trovando riparo in un campo di meli.

Snap, era sempre là a cavalcioni sul ramo, con le spalle appoggiate al tronco.          Continuava a sanguinare sebbene avesse cercato di tamponare la ferita alla meglio con un fazzoletto sudicio. Il sangue colava ai piedi dell’albero in una piccola gora scura. Lungo il fossato arrivò di soppiatto, con le armi spianate, una pattuglia di SS, le micidiali Schutz Staffeln. Snap sentì mozzarsi il fiato. Strinse tra le due mani la pistola, con le braccia dritte e il dito sul grilletto, pronto a far fuoco. Prima di arrendersi o di esser beccato come un tordo tra i rami, voleva farne fuori qualcuno. I soldati sfilarono lentamente sotto di lui, affondando gli stivali nella viscida gora di sangue, ma non s’accorsero di nulla. “È andata”, sospirò il giovane Snap.

Ora, il vecchio Snap, accanto a me in quel loggiato del Comune dove avevamo trovato riparo, ripeté quel sospiro, guardando gli scrosci dell’acqua venir giù sulla strada. Pioveva a dirotto, sempre più forte, in quel lunedì di aprile di una dozzina di anni fa. Dalla strada, un gruppo di vecchi sotto gli ombrelli, si avvicinò sorridendo e con un ultimo passo, ci venne accanto. I vecchi mi diedero la mano, ed io sentii in quella stretta fraterna, le mani della dignità. Erano i vecchi, i compagni del vecchio Snap, sopravvissuti alla resistenza e al tempo. Le donne si presentarono con il nome di battaglia, una per tutte Palmina Bernardi, in guerra, la Fosca. Fosca, la staffetta che aveva lottato al fianco di Giuseppe D’Alema, partigiano e commissario politico delle Brigate partigiane dell’Emilia-Romagna. Eccole le donne che pedalando sulle loro biciclette nella guerra di resistenza, avrebbero contribuito a determinare nella futura Costituzione, l’Articolo 21.

Ivo Ricci Maccarini, in guerra, Snap, lo ripeté più volte. “Si deve a loro. Un giorno io ho capito che non potevo scrivere quel che volevo, né dire quel che volevo. In tutti noi, nacque soprattutto da questa consapevolezza, l’impulso violento alla ribellione. Eravamo nati e cresciuti sotto il fascismo. Vivevamo sotto questo regime e qui a Conselice, nelle nostre case e nelle campagne intorno, si respirava sempre più aria di ribellione”.

Campagne dalle tradizioni antiche, anarchiche, socialiste. Andrea Costa, nelle votazioni del 23 maggio del 1886, quale candidato socialista al Parlamento sfiorò il 94% dei voti, per fare il pieno, quattro anni dopo, toccando la vetta del 100%. In quel 1890 nel mese di novembre, la gente si era riversata a votare in massa il socialista Costa. La popolazione aveva ancora negli occhi l’eccidio del 20 maggio scorso. Le mondine di Conselice e Lavezzola si erano recate, come ogni giorno, al lavoro nelle risaie intorno. Ma quella mattina erano in molte, troppe per quel che c’era da fare.

Le donne restarono unite e non fecero affatto la conta su chi poteva restare e chi no. Anzi, alzarono il tiro e si accordarono per chiedere un aumento sacrosanto del salario. Da 65 centesimi a una lira, decise a non mollare. Il corteo di donne si diresse dalle risaie al centro del paese, lontano tre chilometri o poco più. Al palazzo del comune trovarono le milizie. Una delegazione di donne entrò a trattare con le autorità la questione. Ma ai braccianti disoccupati, sbucati da ogni dove, dal paese e dai borghi vicini, Giovecca, San Patrizio con le loro rivendicazioni di pane e lavoro, fu impedito di aggregarsi. Furono respinti brutalmente. E la piazza si ribellò, unita, compatta. Il comandante dei carabinieri fece suonare la tromba, mandando i suoi uomini all’attacco, per sedare, disperdere, arrestare, zittire. La folla, sempre più inferocita, iniziò una sassaiola fitta come la grandine. I carabinieri attaccarono ancora riuscendo a far disperdere i dimostranti che si allontanavano tra le contrade del borgo. Ma i soldati a quel punto aprirono il fuoco, cominciarono a sparare, raggiungendoli alle spalle.

Alla fine degli scontri, nella piazza e nei vicoli deserti, restarono i corpi senza vita del bracciante Francesco Tabanelli, delle mondine Annunziata Felicetti e dell’Albina Belletti. Molti feriti riuscirono a fuggire per evitare gli arresti. Gli altri dimostranti, feriti in modo grave da non poter scappare, furono ricoverati in ospedale, diversi subirono amputazioni varie, infine vennero arrestati.

Non potevano che esprimersi qui, con tanta forza, le resistenze passive o violente al fascismo che umiliava l’Italia. Sotto il loggiato, con l’acqua sulla strada che continuava a venir giù, il vecchio Snap mi raccontava di quand’era bambino e nelle notti dei trebbi ascoltava dagli adulti favole crudeli, di realtà vergognose. Come quella del 1925 quando l’orco Mussolini si fece vanto dei misfatti del fascismo, e pure dell’uccisione di Giacomo Matteotti. “Ho ancora negli occhi quelle sere nelle stalle insieme agli adulti, mi riferì Ivo Ricci Maccarini, in guerra Snap. Un mio parente – proseguì – ripeteva spesso quel che aveva detto Benito Mussolini, in un suo discorso alla Camera nel ’25: “Se il movimento fascista è una associazione a delinquere, io mi riconosco come capo di quella associazione””. (Oggi sono inquietanti certe affermazioni di chi ci governa).

Il parente di Snap ripeteva la frase a voce alta e passava in rassegna gli sguardi di tutti. E negli occhi di ognuno appoggiava il proprio sguardo, contratto. “Avete capito cosa dice questo farabutto? Prima o poi gliela faremo pagare a quel bastardo. E torneremo alla libertà, il sol dell’avvenire”, ripeteva ogni volta a parenti e compagni, il parente di Snap.

“Per arrivare a quella libertà, sarebbero passati molti anni, ricordava ora, ancora una volta, Snap. Con le leggi speciali del 1926, il paese divenne un regime totalitario. Con al potere un unico partito, quello fascista, gli altri movimenti politici fuorilegge. Spodestato il potere legislativo, fu messo in piedi un tribunale speciale per giudicare e condannare senza appello gli oppositori. All’esercito fu affiancata la milizia fascista, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. La scuola, strumento di indottrinamento della gioventù, doveva crescere in linea con i principi e le scelte del regime. Il monopolio e l’uso martellante dei nuovi mezzi di comunicazione, la radio e il cinema, esaltavano il regime. Che metteva a tacere voce e scritto. Che metteva a tacere la verità”.

Subito dopo l’8 settembre del 1943, il movimento partigiano che ingrossava il fiume in piena della ribellione armata, aveva la necessità di comunicare alla popolazione quanto stava accadendo nell’Italia occupata e quanto stava facendo la lotta della resistenza. Doveva proporre una nuova strada su cui camminare, verso un domani ancora da farsi. Doveva proporre un futuro ad una popolazione immersa in una realtà di lutti e rovine, con un passato pieno di inganni ed un domani dai contorni sfuocati.

La scelta del luogo, dove insediare la centrale occulta della stampa clandestina, cadde sulla bassa Romagna e precisamente sul territorio di Conselice. Non poteva che concentrasi qui, scelta migliore o propizia.

Snap ricordava quei giorni in cui si doveva mettere su un’organizzazione clandestina, occupandosi di tutto quel che c’è da fare nella vita di ogni giornale, dalla scrittura dei testi, alla stampa e alle diffusione delle copie.

“Pensammo di utilizzare delle macchine tipografiche in disuso. Le trovammo a Imola e prendemmo una prima macchina tipografica che noi abbiamo sempre chiamato la pedalina, perché era una macchina che funzionava per mezzo di un pedale, per cui la forza motrice di questa macchina non poteva essere altro che quella delle pedalate delle gambe di contadini, di operai, di braccianti che si erano improvvisati tipografi”.

Da Imola, la pedalina era arrivata attraverso carraie, trasportata su un camion di un venditore di pesce, Guido Buscaroli, che aveva accanto Eugenio Raccagni detto Heugen, e la Berta Pasi, una compagna di Giovecca. La pedalina, una volta rimessa in funzione, fu nascosta in un rifugio nella sponda del Sillaro, scavato nell’argine del fiume. Nei primi giorni di novembre, la pedalina sfornò il primo numero clandestino dell’Unità, in tremila copie.

Gli uomini, barricati nelle tane, pedalando stampavano i giornali e le donne con le biciclette, pedalando, li consegnavano a chi li aspettava. Le donne di Conselice in Romagna, protagoniste, dolci nei loro sguardi materni e feroci come gatte ferite con gli artigli graffianti, nella lotta di liberazione. Le staffette. “Le staffette – ricordava ancora il vecchio Snap – trasportavano giornali, volantini, bollettini e comunicazioni anche a centinaia di chilometri di distanza, beffando la polizia nazi-fascista. Quante volte abbiamo letto o scritto di inchiostro e carta, armi della stampa clandestina. E allora non dimentichiamo di pensare e scrivere di biciclette e pedalate, le armi di diffusione della cultura, in quei tempi di liberazione”.

Mariuccia Miani era una di quelle staffette. Quando la incontrai era un’anziana signora che mai aveva smesso di guardare quei giorni. Si guardava le mani e le vedeva ancora piene di inchiostro. “Ho avuto – mi disse – le mani piene di inchiostro. Puzzavo di piombo dalla testa ai piedi. Avevo le mani con l’odore dei volantini. Perché io portavo via i volantini. I primi volantini, che aveva fatto la stampatrice di Conselice, li consegnai io. Eravamo in sei. Una di noi era una donna incinta. Si metteva una pancera, con le tasche che riempiva di volantini e poi li portava via.  Era piena di volantini. Eravamo piene di volantini. Eravamo in sei. Tre di Conselice e tre di Giovecca”. “Ricorderò sempre – aggiunse il vecchio Snap – che per fare un volantino occorrevano sei pedalate. Sei pedalate per stampare un volantino o foglio di giornale clandestino come l’Avanti, L’Unità o tutti gli altri. Ogni foglio, sei pedalate. Di solito, alla volta, stampavamo 25 mila fogli ed erano necessarie 150.000 pedalate. Ogni volta”.

Giornali clandestini trasportati con la paura nel cuore e il coraggio dei vent’anni, di chi sognava e voleva libertà. Lidia Manaresi, venti anni non li aveva ancora compiuti. Ne aveva diversi di meno. Era poco più che bambina. “Ci mettevamo tutta la stampa addosso e per la strada, nel trasporto in bicicletta, facevamo la parte di ragazze un po’ allegre, perché nessuno pensasse cosa stavamo facendo. Un giorno, con la sporte piene di giornali appese ai manubri delle biciclette, ad un certo punto ci siamo trovate di fronte ad un ponte che dovevamo per forza attraversare. Sul ponte c’era una camionetta piena di tedeschi. Dovevamo attraversarlo e mi prese una stretta al cuore. Con me c’era la Ines, una compagna più anziana e mi dice a denti stretti: ‘Sorridi. Pedala davanti a me, tu che sei la più giovane. Io sto più indietro, però tirati un po’ su le sottanine, fai un po’ la civettuola e così ci lasceranno passare’. Io le diedi retta, mi tirai un po’ su la sottana, feci un po’ la civetta e questi tedeschi al nostro passaggio si misero a ridere, ci fecero un po’ di versi che noi non capivamo, un po’ di fischi, poi si misero a ridere e così noi passammo quel cerchio di fuoco senza bruciarci le penne. E scappammo lontano”.

La responsabile delle staffette, Ines Tedeschi di Conselice, in guerra la Bruna, un giorno sarebbe caduta tra gli artigli del nemico. Scoperta e torturata dai nazi-fascisti, non avrebbe aperto la bocca per dire parola alcuna da mettere a repentaglio la vita dei suoi compagni di lotta. Il suo corpo martoriato fu gettato nel greto di un fiume che l’inghiottì per sempre, in quel giorno a Riva del Po, nei pressi di Parma del 28 marzo del 1945. La Bruna, Ines Tedeschi, aveva poco più di trent’anni. Alla sua memoria, nel 1968, fu data la medaglia d’oro al valor militare. Una donna mite, intelligente e tenace, da sconfinar nella leggenda che avrebbe ispirato il romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire. Il ricordo di Palmina Bernardi, in guerra la Fosca, è ancora tutto qui. “Un giorno mi si ruppe la catena della bicicletta. Una di qua e l’altra di là, le sporte erano piene di giornali e di bombe, nascoste sotto a ciuffi di erba per i conigli. Con la bicicletta a mano, camminavo lungo una carraia che non finiva più. Mi si avvicinò una camionetta di tedeschi e mi chiesero se volevo andare con loro. Io risposi se volevano loro, venire con me a dar da mangiare ai conigli. E così se ne andarono”. Le donne staffette consegnavano, a chi li aspettava, volantini e giornali sfornati dalle stampatrici clandestine nella bassa di Conselice. Alle tirature de l’Unità per le province di Ravenna e di Forlì, si aggiunsero le copie per la provincia di Ferrara. Ancora, le stampe dei giornali La Lotta, quindicinale delle federazioni comuniste romagnole, II Garibaldino, II Combattente, organi delle Brigate Partigiane, l’Avanti!, La Voce Repubblicana, Fronte Interno, Terra e Libertà, Terra e Lavoro, La Scintilla e Noi Donne, l’organo dei Gruppi di Difesa della Donna e per l’Assistenza ai Combattenti della Libertà. Per un breve periodo si stampò anche l’edizione de Il Combattente per il Comando Unico Militare Emilia Romagna, con punte di 10.000 copie. Giornali clandestini trasportati da queste donne dei campi.

Ora, continuava a piovere fuori dal loggiato del municipio. Il vecchio Snap mi disse che gli piaceva ricordare, affinché i giovani sapessero. Nonostante gli arresti, le torture, le fucilazioni subite dai tanti che lavorarono per la stampa clandestina, la tipografia non fu mai scoperta, né bloccata, garantendo così l’informazione su quanto avveniva nell’Italia ancora occupata. Tutto questo perché, in tutto il tempo, da queste parti nessuno parlò.

Undici persone che avevano partecipato all’impresa della stampa clandestina, furono ammazzate. Ma nessuno in paese, col ricatto del terrore, aveva ceduto alla paura o alla viltà. Nessuno aveva mai parlato e la stampa clandestina aveva continuato a lavorare sotto il fiato degli oppressori, sguinzagliati fino al giorno della liberazione. Giorno santo, laico, partigiano e pagano. In un paese dove pure le bestemmie erano mistici canti.

In una testimonianza rilasciata a suo tempo a Francesca Scianchi, dal vecchio partigiano Nando Preti, che all’epoca aveva 88 anni e una voce ancora fresca, il ricordo di Aristodemo Sangiorgi. Un uomo del posto che per primo aveva custodito a casa propria la pedalina. Scoperto, fu ucciso all’istante. “Spesso non conoscevamo chi ci ospitava –  proseguiva il vecchio Snap in quel suo snodare i ricordi -. Lavoravamo quasi tutte le notti e di giorno riposavamo sotto un pagliaio”. Lo diceva con la purezza degli umili, che non si rendono conto di aver fatto la storia. “Abbiamo fatto quel che dovevamo fare. Quel che era giusto fare. “Come ha fatto Nando Preti. E’ andata così. Nando Preti è morto l’8 gennaio del 2005, ma qualche giorno prima dell’ultimo viaggio alle porte, aveva voluto stampare con la pedalina, per l’ultima volta, l’ultimo volantino per il suo funerale. Nel manifesto in cui si annunciava la sua morte, aveva scritto che per il suo funerale non voleva fiori ma offerte per la realizzazione del monumento, in piazza, alla libertà di stampa.

“Tutti in paese sapevano, ma nessuno parlò. Fino al giorno della Liberazione. Il 25 aprile fu il giorno più bello della nostra vita. Portò la fine della guerra e la liberazione dell’Italia. Eravamo felici. In quella giornata ci abbracciavamo. Poi ognuno di noi rimasto in vita, pensò ai nostri compagni caduti e soprattutto ai nostri compagni caduti per la stampa clandestina e per la libertà di stampa. Pensavamo che la tragedia di questi operatori della stampa fosse finita lì. Invece, col passare del tempo, purtroppo ci saremmo accorti che altri operatori della stampa, altri giornalisti continuavano a cadere, continuavano a soffrire, continuano ad essere carcerati, torturati e a morire per quanto riguarda la loro funzione, la loro meravigliosa funzione”, disse alla fine il vecchio Snap.

In una piazza del paese di Conselice, nella campagna ravennate, è esposto un monumento. Quel monumento proposto dal vecchio Nando. Non c’è stato bisogno di creare qualcosa di nuovo. Hanno esposto una delle macchine tipografiche che sfornavano volantini e giornali nelle stamperie clandestine, dopo l’8 settembre del 1943 fino al 25 aprile del ‘45. La pedalina che stampava i giornali con le forze delle gambe di operai, contadini e braccianti. Contadini, operai, braccianti, facevano fino 150.000 pedalate per turno, per passare le consegne alle partigiane staffette, che sfidavano il mondo sui pedali di biciclette arrugginite. In un valzer sofferto, tragico e sublime, pieno di morte e di vita, degli uni e le altre, per la libertà di stampa. E la libertà di tutti noi.


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