Rossa e Alessandrini nell’inferno degli Anni di piombo 

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Di Guido Rossa ed Emilio Alessandrini, figure estremamente diverse, accomunate, nel gennaio di quarant’anni fa, dallo stesso tragico destino di morte, è rimasta soprattutto un’impressione. L’impressione che le loro uccisioni, ad opera delle Brigate Rosse e di Prima Linea, abbiano costituito un punto di svolta nella vicenda nazionale della lotta al terrorismo.
Le nubi non sono mai state rimosse, soprattutto per quanto concerne il caso di Rossa, e la coltre di mistero e indecenza che avvolge la nostra storia si fa sempre più densa e asfissiante, al pari della sensazione che fino a quando non avremmo recuperato almeno “un atomo di verità” (la citazione di Aldo Moro non è casuale) a proposito di quei giorni non potremo lasciarci definitivamente alle spalle quella stagione di sangue, di orrore e di esaltazione collettiva che è la causa principale dello sconforto odierno.

Guido Rossa, operaio comunista, reo, agli occhi del suo assassino e di chi ne ordinò il delitto, di aver denunciato un collega che diffondeva in fabbrica volantini brigatisti, era uno splendido esempio di cosa sia stato il comunismo italiano, sia nella sua versione politica che a livello sindacale, visto che egli era iscritto tanto al PCI quanto alla CGIL. Erano gli anni di Berlinguer e Lama, gli anni del discorso berlingueriano sull’austerità e della svolta dell’EUR anticipata dal segretario della CGIL in un’intervista rilasciata a Scalfari, gli anni della solidarietà nazionale e del delitto Moro: anni difficili, maledetti, intrisi di sangue  cosparsi di menzogna. Anni che il nostro Paese ha pagato a carissimo prezzo e continuerà a pagare fino a quando non saranno state rimosse le zone d’ombra e i punti oscuri non tanto sugli esecutori materiali dei vari delitti quanto sui mandanti e sul ruolo che esercitò lo Stato nei singoli episodi.
Guido Rossa, uomo integerimmo e di grandissimo spessore, simbolo di quell’aristocrazia operaia che fu alla base del discorso politico del PCI per oltre mezzo secolo e di quella Genova medaglia d’oro per la Resistenza che nel ’60 aveva saputo opporsi alla barbarie di un congresso missino incautamente concesso dal governo Tambroni, fu la salma di fronte alla quale andò a piangere Pertini, il quale, rivolgendosi poi ai compagni riuniti davanti a lui, si definì “compagno” a sua volta, non presidente, e scandì un “vergogna!” che mutò radicalmente l’immaginario della sinistra nei confronti di un’organizzazione che non aveva nulla di nobile e molto di osceno e di criminale.
Sarebbe giusto, altresì, interrogarsi se sia stata quella generazione di figli del boom e del benessere del dopoguerra a fondare le Brigate Rosse, fino a giungere all’autodistruzione, o se siano state le Brigate Rosse e il clima avvelenato del post-piazza Fontana a travolgere e rendere schiava del proprio fanatismo, dapprima rivoluzionario e poi nichilista, quella generazione.

Sarebbe opportuno domandarsi se le Brigate Rosse abbiano fatto comodo a qualcuno, se siano state utilizzate per destabilizzare il Paese e infine annientate quando ormai non servivano più e i suoi membri sapevano troppe cose o se questi siano solo discorsi da complottisti. E lo stesso vale per Prima Linea e persino per i PAC di Battisti: chi c’era dietro? Quale disegno perseguivano? Come hanno potuto procurarsi così tante armi e spargere così tanto sangue innocente?
È un discorso che va al di là di Rossa e del giudice Alessandrini, il quale, in una Milano plumbea e ormai prossima a consegnarsi alla dissoluzione consumista dopo aver vissuto il decennio delle passioni sfrenate e devastanti, cadde, cinque giorni dopo Guido Rossa, sotto i colpi di Prima Linea (a sparargli materialmente furono Sergio Segio e Marco Donat-Cattin), col suo carico d’odio e di ferocia omicida, trasformatasi, quarant’anni dopo, in una straziante analisi priva di troppi elementi, come se gli stessi artefici di quel bagno di sangue si stessero cominciando a chiedere se non siano per caso stati usati e poi scaricati da coloro che muovevano le fila di un gioco immensamente più grande del loro estremismo e del loro immaturo giocare ai partigiani, senza possederne né l’idealismo né la disponibilità al sacrificio.
Quarant’anni dopo ancora si discute, ci si pone quesiti annosi, si annaspa alla ricerca di una verità che non è mai emersa. Il rischio è che presto scenda l’oblio e rimanga solo una nuova, dissennata forma di odio. Sarebbe questa la più atroce delle conclusioni: restare imprigionati in un decennio che non abbiamo ancora capito e di cui oggi non abbiamo più neanche gli strumenti culturali per coglierne gli aspetti migliori.

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