Mosca, le spie, il ’68

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L’opinione dei servizi segreti italiani, che lo avevano ritenuto degno d’attenzione – dagli atti del processo sul suo omicidio è emerso che rimase sotto osservazione, per decenni, dai primi anni ’50, sino a pochi giorni prima del suo assassinio –, era che mio padre fosse un uomo di Mosca.
Avevo assistito ad alcune delle sue conversazioni con Davide Fais, una vecchia conoscenza di famiglia, figlio di mamma Fais, storica amica dei nonni Zacco, motivo per cui le nostre famiglie erano molto legate.

Fais era emigrato, per scelta politica, in Unione Sovietica ed era docente all’Università di Mosca, dove viveva e aveva messo su famiglia. Quando s’incontravano a Palermo, dove tornava a far visita alla madre ed al resto  dei numerosi parenti, papà, curioso di sapere, lo riempiva di domande sull’URSS, il PCUS, Mosca, l’Università e la vita quotidiana nel Paese del socialismo reale, e Fais non trascurava nei suoi racconti i riferimenti ai limiti, alle manchevolezze, alle contraddizioni del sistema e della società sovietica.
Mio padre ascoltava, avanzava dubbi, chiedeva chiarimenti e offriva punti di vista che portavano a conclusioni diverse. Fais ribadiva, argomentando ulteriormente, la correttezza delle sue affermazioni. Gran belle discussioni, che li vedevano entrambi appassionarsi, condividere analisi e rispettare le differenze d’opinione.
Tuttavia, più il tempo passava, più Fais andava maturando il proposito di tornare in Italia, perché non riusciva più a ritrovare le ragioni che lo avevano portato in Unione Sovietica. Finché non venne il giorno, erano gli anni Settanta, in cui prese la decisione di rientrare a Palermo, condivisa e sostenuta da mio padre. Si era spenta la spinta propulsiva che lo aveva portato nel Paese del socialismo reale.
Nel 1968 era scoppiata la contestazione studentesca e mio fratello Filippo frequentava l’ultima classe del liceo classico Garibaldi. La sua scuola era tra le protagoniste del movimento degli studenti palermitani e lui era tra i leader della protesta giovanile.
Mi ricordo di una sera d‘autunno, davanti al cancello di casa, ascoltavo: mio fratello discuteva con Giorgio ed Enrico Colajanni, figli di Pompeo, dell’occupazione del liceo. A un certo punto arrivò mio padre, che rientrava dal lavoro, e si fermò ad ascoltare i ragionamenti di quei tre giovani rivoluzionari. Appena ne ebbe capito abbastanza, espresse le sue perplessità sulla scelta di occupare la scuola. Domandò a mio fratello e ai giovani Colajanni quale fosse l’obiettivo che volevano raggiungere, cosa pensassero di poter ottenere con l’occupazione, una forma estrema di lotta. Loro risposero che così stavano facendo gli studenti in tutta Italia e a Palermo non potevano essere da meno.
Mio padre gli disse che non considerava una ragione valida quella di agire per imitazione, e non sulla base di un ragionamento politico sull’obiettivo e sulle forme di lotta per conseguirlo. I toni si alzarono e i ragazzi non vollero sentire ragioni, rivendicando l’autonomia delle loro scelte. Allora mio padre, visibilmente contrariato, li mandò a quel paese ed entrò in casa.

(10 – continua)


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