Carlo Cottarelli e il debito pubblico italiano

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“Se mettessimo in fila una di fianco all’altra tutte le monete da un euro che formano il nostro debito pubblico, raggiungeremmo 151 milioni di chilometri, più o meno la distanza che c’è tra Marte e la Terra”. Con questa immagine a sorpresa, pittoresca ma per nulla rassicurante, esordisce Carlo Cottarelli di fronte al pubblico dell’Hotel Excelsior di Pesaro presentando il suo libro, edito da Feltrinelli, sul tema più scottante che affligge l’economia del nostro Paese: “Il macigno –  Perché il debito pubblico ci schiaccia e come si fa a liberarsene”. Argomento che lo studioso è tornato a illustrare a “Otto e mezzo”, il salotto buono di La 7 con Lilli Gruber. Un sentiero di 151 milioni di chilometri di monete corrispondono in cifre a 2.228 miliardi di euro, il “macigno” che grava sulla nostra nazione calcolato al 132 % del Pil (Prodotto Interno Lordo). Un tetto che l’Italia non ha mai conosciuto tanto elevato nella sua storia, sfiorandolo una sola volta, con il 130 per cento, all’indomani della disastrosa Prima Guerra mondiale. Proprio in questi giorni sta battendo ogni record di negatività, pur sempre nella distrazione comune, senza che i nostri governanti abbiano voglia di prendersene cura seriamente, insensibili alle conseguenze che ci attendono.

Una famiglia così gravemente indebitata cosa farebbe? Prosegue l’economista; cercherebbe di guadagnare di più e di diminuire oculatamente le spese. Non c’è altra uscita: in Europa siamo al penultimo posto prima della Grecia che, come si sa, è finita in bancarotta.

Ascoltando l’oratore sembra di assistere alla sequenza cruciale di un film americano di genere catastrofico, in cui il protagonista cerca inutilmente di far capire ai suoi interlocutori la pericolosa china che hanno imboccato. Infatti Carlo Cottarelli, vigoroso sessantatreenne di Cremona, possiede anche nell’aspetto il carisma di un attore, anzi come si direbbe nel gergo dello spettacolo, il “physique du rôle”, vale a dire la presenza giusta per la parte: magro, guance scavate, capelli cortissimi, aria atletica, volitiva, scattante. Sarebbe l’interprete ideale dell’onesto professore di un Campus che combatte a mani nude contro i signori della politica, decisi a non ascoltarlo pur di perseverare nei propri interessi particolari. Soltanto che quello a cui assistiamo non è un intrattenimento per lo schermo, bensì la dura realtà quotidiana. Il docente di economia sta diffondendo pubblicamente la sue analisi da quando nel 2013 fu nominato dal governo Letta  Commissario straordinario per la Revisione della spesa pubblica; e continua oggi nella sua nuova posizione di membro del Fondo Monetario Internazionale e direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Limpido nell’esposizione, chiarissimo nel rendere semplici concetti complessi, Cottarelli dipana la sua lezione cercando di indicare le strade idonee per uscire da una situazione di preoccupante emergenza senza finire schiacciati dal macigno: “Un po’ di debito pubblico è anche utile all’economia – puntualizza – ma troppo fa male”. Soprattutto perché crea il fondato presupposto che lo Stato presto non sarà più in grado di pagare il suo debito; così gli investitori fuggono, i titoli di risparmio crollano, l’economia stagna per il serpeggiare di una cronica mancanza di fiducia.

Il Fondo Monetario giudica che per un Paese con le caratteristiche dell’Italia il debito non dovrebbe oltrepassare l’85% del Pil. La Germania, per fare un paragone, ha un debito del 70% del suo Prodotto Interno Lordo. Come guarire? Con quali medicine?

Una soluzione più chirurgica che farmacologica è la bancarotta; altri stati l’hanno adottata, alcuni anni fa l’’Argentina. E’ l’estremo rimedio, con il quale si sacrificano irrimediabilmente i cittadini virtuosi falcidiandone le riserve di denaro accantonate con fatica nel corso della vita. Una misura odiosa che distruggerebbe anche per il futuro la credibilità dello stato, il quale camuffa dietro il default una iniqua tassazione alla cieca, senza distinzioni. Ferita molto ardua da rimarginare nella memoria delle masse!

Attualmente l’economia regge perché la Banca Centrale Europea sta comprando grandi quantità di titoli di stato dei paesi membri, Italia in testa, e questa iniezione di denaro liquido finisce nelle casse delle banche permettendo di tenere molto bassi i tassi di interesse sui prestiti e favorendo la ripresa industriale. Ma questa strategia è destinata a finire molto presto, sicuramente con la scadenza della presidenza di Mario Draghi alla BCE, al cui posto andrà con tutta probabilità un economista del nord Europa assai meno sensibile alle difficoltà dei paesi ‘spendaccioni’. Una volta tirati i cordoni della borsa, i tassi di interesse riprenderanno a salire, e le imprese avendo più spese saranno costrette ad alzare il prezzo dei loro prodotti perdendo in competitività e innescando una nuova recessione.

Come intervenire in anticipo ad evitare guai irreparabili? Lo Stato italiano per far fronte alla crescita di interessi sul debito non avrà la possibilità né di aumentare ulteriormente le tasse (frenando di conseguenza il consumo) né di aumentare la spesa se non indebitandosi ancora più pesantemente.

Escludendo l’ipotesi della bancarotta, gli economisti individuano alcune “scorciatoie”. Una è quella di tornare alla vecchia lira abbandonando l’euro. “Che sarebbe un incubo”: con la svalutazione/ inflazione cadrebbe a picco il valore dei salari e tutti diventerebbero più poveri. Tuttavia il ritorno alla lira offre sulla carta qualche vantaggio: svalutando (come si faceva prima dell’euro) e stampando moneta, correremmo sì incontro all’inflazione (cioè minor poter d’acquisto del denaro) ma ciò permetterebbe da un lato di contenere  il debito, e dall’altro di favorire le esportazioni dei nostri prodotti sul mercato mondiale. Nondimeno il Paese sarebbe fragilissimo, e a un prossimo shock finanziario simile a quello del 2008/9, diventerebbe terra di saccheggio per gli speculatori internazionali.

L’altra scorciatoia per ridurre il debito pubblico è rappresentato dalla vendita dei “beni della corona”, cioè incamerare soldi dalla cessione ai privati del nostro patrimonio nazionale. Purtroppo però il meglio è già stato venduto, e quel che rimane non basterebbe al proposito. La privatizzazione aiuta ma non risolve il problema.

La strada maestra resta dunque quella di aumentare la produttività cavalcando l’onda favorevole e riducendo i costi che gravano sulle imprese italiane. La soluzione più saggia, ma anche più difficile da praticare per almeno tre ragioni tutte italiane: una burocrazia pachidermica che rallenta ogni processo produttivo fino ad asfissiarlo; la lentezza dei processi civili che non garantiscono agli investitori la certezza del diritto; la tassazione troppo alta che affligge ogni iniziativa imprenditoriale. Un percorso a ostacoli a dir poco scoraggiante.

L’Italia attualmente sta crescendo di 1,5 punti l’anno. Un segno positivo che però in sé non basta; bisognerebbe crescere di almeno tre punti, come la Germania, per poter invertire la tendenza recessiva. E a condizione che si agisca come farebbe un responsabile capofamiglia il quale, quando lo stipendio aumenta  non va subito a spendere il frutto delle maggiori entrate ma lo utilizza per pagare i debiti. L’Italia non ha altra scelta che risparmiare sulla sua ripresa economica (austerity) con il fermo proposito di raggiungere il pareggio di bilancio. Approfittando del trend positivo del momento a spingendo al massimo la produttività, non dovrà più prendere soldi in prestito, il debito comincerà a scendere e il PIL aumenterà. Con una crescita nominale del PIL del 3% anche il debito diminuirebbe di 3 punti, forse anche tre punti e mezzo ogni anno.

Il pareggio di bilancio è oltretutto un obbligo stabilito dalla Costituzione, al quale l’Italia sembrerebbe organicamente e storicamente refrattaria. Il pareggio è stato raggiunto solo due volte nel corso dell’Ottocento e una volta – puntualizza un partecipante alla conferenza – sotto il fascismo, nel 1925. I governi del dopoguerra hanno sempre trovato i motivi per  protrarre, ritardare, sostenere che il momento non sia quello giusto. Invece sarebbe l’unico traguardo da perseguire con determinazione, anche per una ragione non certamente secondaria: risparmiando i soldi che entrano grazie a una maggiore produttività e accantonando un ‘avanzo primario’, il Paese sarebbe pronto a fronteggiare, senza danni eccessivi, qualsiasi nuova crisi mondiale si addensasse all’orizzonte.

L’impressione invece, conclude il professore della Cattolica, è che il governo si comporti come quel famoso capitano della canzone di Francesco De Gregori, il quale messo in guardia dal mozzo sull’avvistamento di un iceberg, non si lascia influenzare: “”Giovanotto, io non vedo niente. C’è solo un po’ di nebbia. che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente”.

La canzone si intitola “I muscoli del capitano” e riecheggia la tragica vicenda del Titanic. Una prospettiva che onestamente fa paura a tutti. Forse siamo ancora in tempo per modificare la rotta ed evitare di andare a schiantarci contro una montagna galleggiante che la vista acuta di Carlo Cottarelli ci annuncia sempre più vicina.


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