Le vite spezzate delle donne

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Non è facile parlare “al femminile” della bruciante e magnifica contraddizione dell’essere donna, della grande illusione di far parte della Storia, ma in pratica restandone ai margini. Si vorrebbe dire di tutto, ma alla fine le parole restano in sospeso. Meglio allora affidarsi alle storie, al valore del racconto di esistenze simboliche, che nella loro unicità racchiudono la molteplicità del tutto.

Su Camille Claudel e del suo genio di scultrice in un’epoca in cui era impossibile per una ragazza frequentare l’Accademia delle Belle Arti si è molto parlato negli ultimi anni, dopo la prima retrospettiva nel 2009 al Museo Auguste Rodin di Parigi. Per decenni il suo valore è stato sepolto negli scantinati insieme alla vergogna di una “vita dannata” da dimenticare, condannata dalla sua famiglia alto-borghese (era sorella del famoso scrittore e diplomatico Paul Claudel) a marcire nel manicomio di Mont de Vergues (vicino ad Avignone) per 30 anni, fino alla morte nel 1943.

Il prossimo 23 Marzo a Nogent-sur-Seine verrà inaugurato un Museo che raccoglierà gran parte delle sue opere (gessi, marmi, bronzi, bozzetti) in una sistemazione definitiva, che conferirà omogeneità e onore ad una grande artista che ha saputo rappresentare i sentimenti dell’animo umano, modellandoli dalla materia grezza (https://www.youtube.com/watch?v=7sVVqdUT_R4). Le figure prendevano forma dalle sue dita con perfezione e senso di leggerezza, con immediatezza così naturale che a 18 anni, nel 1882, il quarantunenne e già famoso Rodin, durante una lezione alla Scuola d’Arte Colarossi, la notò e le propose di entrare nel suo Atelier come modella e apprendista. Fra i due iniziò una relazione d’amore distruttiva e una carriera artistica parallela alle loro discordanze del cuore, e per Camille la ricerca disperata di una autonomia creativa e di un riconoscimento pubblico, fuori dal cono d’ombra del maestro.

Nelle sue lettere confidava di “lavorare come un uomo”, di scavare con lo scalpello “la bellezza delle forme e il loro movimento” fino allo sfinimento. Nel bronzetto “Il Valzer” una coppia avvinghiata sembra sfidare la forza di gravità, fluttuando tra terra e aria: una fusione di anime, prima che di corpi. “Sakuntala” o “L’Abbandono”, ispirato al poema indiano del V° secolo, le valse il suo primo importante riconoscimento nel 1905. “L’età Matura” del 1899 è una vera opera narrativa, una metafora del destino e dei rapporti umani, una rappresentazione della giovinezza persa a rincorrere i sogni. Una sorta di autobiografia scolpita: lei giovane implorante che tende le braccia verso il maturo e stanco maestro, rapito dalla più anziana amante. Un’esplicita supplica d’amore che Paul Claudel, il temuto fratello accademico di Francia, interpretò come un’umiliante confessione di una donna “abbandonata che oltre all’uomo perde l’anima e la dignità”.

Quando finalmente la critica inizia a riconoscere la sua grandezza, la sua fragilità emotiva prende il sopravvento. Le difficoltà economiche, l’ostracismo della famiglia, la rottura definitiva con Rodin, la spingeranno verso l’instabilità psichica, alla rinuncia della sua vitalità, un binomio di grazia femminile e determinazione. La sua tensione interiore che sembrava inarrestabile si sfilacciò, spingendola verso l’abisso. Ma sarà la madre a farla rinchiudere nel 1913 in manicomio e allontanare da sé per sempre una figlia che non amava e non accettava, in difesa della carriera del figlio Paul, “disturbato” dalle stranezze di una sorella ingombrante e “poco decente per la morale comune” dell’epoca.

Isolata dal mondo, Camille cercò disperatamente di uscire da quella prigione e di denunciare la “terribile e crudele ingiustizia”. Scriveva all’amico di sempre, il gallerista Eugène Blot: “Sono caduta in un baratro, dal sogno che è stata la mia vita, ora è rimasto l’inferno”.

La vita di Charlotte Perriard, artista d’avanguardia, fondatrice del Designer che ha rivoluzionato l’architettura d’interni del secolo scorso, l’ha raccontata lei stessa nella sua autobiografia “Une Vie de Création” (ed. Odile Jacob). Nel 1927, quando si affacciò per la prima volta al numero 35 di Rue de Sévres, il regno di Le Corbousier, fu accolta con un laconico “qui non si ricamano cuscini”. Ma la sua visione politica ed etica sulla vivibilità degli spazi “secondo la sensibilità moderna” diede subito inizio ad un sodalizio durato oltre dieci anni.

Le progettazioni di quegli anni le definiva “ingegnerie estetiche”. I suoi materiali erano l’acciaio, il legno, il cuoio, l’alluminio, forgiati in modo plastico, in un “funzionalismo poetico”, dove ogni elemento doveva essere adattato alla sua ragion d’essere. Così le “forme libere” delle sue librerie e dei suoi tavoli, trasparenti in vetro o di legno caldo massello, che evocano un’idea moderna di focolare e di intimità senza tempo, crearono un’empatia totale con un ideale ambientale, basato su “l’armonia del vivere, come una ricerca sentimentale”.

Per lei, infatti: “E’ la natura a pari merito con la storia dell’arte e dell’architettura a fornirci le linee guida della vita”, suggerendoci di “aprire gli occhi a ventaglio”, valorizzando gli oggetti più umili, mischiandoli con quelli più sofisticati, “rispettando la libertà delle forme e il concetto di vuoto, onnipotente, perché può contenere tutto”. Le sue poltrone cubiche in pelle nera e acciaio cromato “Grand Confort”, le sedie con schienale basculante e braccioli in pelle, dalle proporzioni armoniose, le riposanti “chaise-longue” sono diventate icone del Ventesimo secolo.

Se nel ‘29 l’imperativo era stato combattere l’arretratezza delle accademie, dando vita alla “Union des Artistes Modernes”, nel ‘36 la priorità fu l’impegno antifascista con il “Manifesto della grande miseria di Parigi”: un fotomontaggio lungo 20 metri, esposto al Grand Palais, in cui si denunciava l’insalubrità delle periferie parigine, conseguenza di politiche spregiudicate, proponendo un vasto programma di ricostruzione, a voler dimostrare l’importanza sociale del contesto abitativo e relazionale fra le persone. Nel 1993, a 90 anni, ci ha lasciato un ultimo dono, a sottolineare la centralità dell’essere umano rispetto alla tecnologia e la sua idea di convergenza fra Oriente ed Occidente: “La Casa del Thè”, un luogo tradizionale e contemporaneo, “per meditare e sognare l’immateriale, una nuova età dell’oro, frutto della sensibilità e della diversità”.

La dignità della diversità è anche il fulcro della creazione fotografica di Diane Arbus e della sua meravigliosa e irrituale rappresentazione della realtà, che riusciva a frugare con raffinatezza e rispetto nei meandri della fragilità umana e a illuminare il mostruoso ben nascosto fra le ombre inafferrabili della rimozione e dei traumi dell’esistenza.

Guardo la divinità dentro le cose ordinarie. La mia macchina fotografica mi riporta alla luce l’ignoto, mi dà la licenza di andare dove voglio. La crudeltà non è altro che una forma estrema di confidenza”. Così spiegava il forte legame di intimità che la legava senza facile sentimentalismo ai soggetti che privilegiava: gli emarginati, gli ultimi, i freak, i vecchi sulle panchine, i malati mentali e l’innocenza dei loro sorrisi. Non c’è pudore nell’inquietante normalità dei volti che lei inquadrava, ma una sotterranea complicità. I bambini stralunati al Central Park di New York negli anni ’60, una famiglia a passeggio per Brooklyn con i “vestiti buoni della domenica”, il goffo realismo della impacciata coppia di adolescenti in Hudson Street. Le gemelline del New Jersey dai sorrisi opposti e gli occhi inespressivi, che ricordano un inquieto racconto di Henry James. Gli audaci contrasti accesi dei neri e dei grigi sottolineano i particolari scabrosi del mondo Underground, dei bassifondi e delle notti proibite, trasudanti di devianza, ma anche di umanità. Nudisti, travestiti, spogliarelliste, ermafroditi e avventori solitari dei bar: un mondo alienato, gli sguardi diritti alla camera, senza inibizioni, fiduciosi di affidare i propri segreti e tabù all’occhio indiscreto della Arbus, che oltrepassa la sottile linea grigia “della rigidità emotiva che condiziona tutti i rapporti”.

L’amore per le differenze è il filo conduttore della vita artistica e privata della fotografa, il rifiuto dell’ambiente alto borghese da cui proveniva, la sua dannazione. “Ero prigioniera delle mie origini, dolorosamente rassicuranti”, annotava nel suo diario. “Amo le differenziazioni e il carattere unico di tutte le cose che conferiscono importanza alla vita. La fotografia è un segreto su un altro segreto; più essa racconta, meno puoi sapere su di lei”. Forse comprese la vertigine dell’ignoto quando vi sprofondò, il 26 luglio del ’71, imbottita di barbiturici, tagliandosi le vene nella vasca da bagno del suo appartamento.

Nella poetessa russa Marina Cvetaeva materia e spirito si fondevano al ritmo del suo respiro. Le liriche e i diari sono la testimonianza della sua smisurata grandezza e i confini tragici della sua esistenza, attraversata dalla Rivoluzione d’Ottobre, l’esilio, la solitudine, l’orgoglio, l’estrema povertà, la sconfitta e la consapevolezza di “essere nata fuori tempo, estranea in ogni luogo, con una natura passionale”. Nel 1922 lascia Mosca, ma nel lungo peregrinare la terra natia resterà sempre il suo sconfinato paesaggio interiore “l’estremo confine del visibile”; mentre Parigi sarà “l’impero della misura”, dove a fatica tenterà dal ’26 al ’39 d’integrarsi nel variegato mondo degli esuli. “I nobili inganni non esistono, esistono solo gli inganni meschini e le nobili verità”.

I suoi Diari (ed. Adelphi) sono un racconto di lacerante lucidità e uno spaccato di storia del Novecento, che si dipana per inediti e sorprendenti orizzonti. Lei appare forte, sprezzante, rigorosa, scolpita nella roccia, poetessa nelle viscere e nelle pieghe dell’animo. “Mi sono sempre scorticata viva e tutti i miei versi sono letteralmente frammenti argentei del mio cuore”. Note spezzate e ricomposte in partiture precise, dissonanze e assonanze alternate in regale carnalità. “Un abisso di purezza e di forza” le definì Boris Pasternak. Dell’amore, presenza sotterranea di tutta la sua opera, diceva: “E’ un mendicante. Se ne va con ciabatte scalcagnate, e certe volte non ha neanche quelle. L’amore non è una conversazione a tavolino, è carne, è sangue, un fiore intinto nel sangue”. I sentimenti coincidevano nell’atto poetico, come un’ossessione.

Marina desiderava a tal punto la vita da restarne divorata, risucchiata. Odiava il quotidiano che la separava dalla sua vocazione e la induceva ad affermazioni estreme. “La creazione artistica e l’amore sono incompatibili. Posso amare solo la persona che in una giornata di primavera a me preferirà una betulla”. Anche le sue figlie venivano dopo. Nei giorni della fame e del gelo a Mosca, arroccata nella soffitta di quella che una volta era stata la sua dimora, si dimenticava dei loro pianti, ritardava la ricerca di quel po’ di cibo che si poteva trovare per nutrirle. Mentre i suoi sogni giovanili si dissolvevano, continuava a riempire di scrittura minuta e regolare i fogli sparsi sul tavolo. La Russia era ormai per lei “il paese – dove – io mai, il paese – venturo, il non – mio futuro”. Erano lontani i giorni della spensieratezza, quando era la regina dei salotti letterari, “Quando a Dio chiedevo solo una stanza qualunque – un buco – da solo – un porto – per me! Quattro pareti per il silenzio”.

Fino alla fine, la poesia resterà la sua unica consolazione, la ragione di vita che l’avvicinò idealmente, nella lontananza, ad Anna Achmatova, poetessa che cantava con lievità la gloria, le debolezze, le vibrazioni sentimentali riflesse fra le luci e le ombre della sua incantevole femminilità. L’eleganza e l’ebbrezza della felicità, che brillano fra i suoi versi, si spensero sotto la censura staliniana. “L’ala nera della morte. L’autunno macchiato di lacrime, come una vedova nera in gramaglie”. La sua ispirazione, nutrita dall’abitudine alla libertà e dalla consuetudine all’amore per ogni cosa si veste di nostalgia e di rimpianti. “Sul lago s’è fermata la luna, e sembra una finestra spalancata in una casa calma e illuminata, dove sia penetrata la sfortuna”.

Nel 1941 avviene l’incontro fuggevole fra le due muse della poesia; uno scambio intimo di affinità elettive, cementato dal dolore e dai lutti comuni. Anna rimase sempre “prigioniera in patria”, anche se umiliata da un regime che la definiva “mezza santa e mezza puttana”. Marina fu invece annientata dal disprezzo, elemosinando un lavoro da lavapiatti, negato: “L’offesa è indegna di Dio. Abbiamo colmato Mosca di regali e Mosca mi scaccia, mi bandisce”.


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