Di Piero Pantucci
E’ stata la giornata del ricordo di Giulio Regeni. In tutta Italia, e non solo. La sua figura, un anno dopo il rapimento (cui sarebbe seguita, nel giro di pochi giorni, la morte) è stata al centro di commemorazioni (particolarmente forte quella svoltasi a Roma, sotto il patrocinio di Amnesty International) svoltesi in varie parti d’Italia. E anche al Cairo, ove, nella sede diplomatica che dovrebbe essere occupata dall’ambasciatore Cantini – in realtà mai insediato per protesta verso la scarsa collaborazione egiziana nei confronti dell’inchiesta – i dipendenti dell’ambasciata hanno reso omaggio alla memoria del giovane ricercatore italiano.
L’inchiesta procede a singhiozzo. Ora che sono stato resi noti i verbali degli interrogatori ai quali Mohammed Abdallah è stato sottoposto dalla magistratura egiziana nel maggio dello scorso anno, risulta sempre più difficile ai servizi segreti egiziani negare una responsabilità diretta nel sequestro e nell’assassinio di Giulio Regeni.
E’ irritante che la Procura del Cairo impieghi mesi per rivelare ai colleghi italiani i contenuti di un interrogatorio che riveste notevole importanza e che mette a nudo una serie impressionante di menzogne e di omissioni. Questo centellinamento di verità o di mezze verità appartiene verosimilmente a logiche giudiziarie fortemente condizionate dalla scarsa indipendenza della magistratura dell’Egitto rispetto al potere politico.
Ieri era stato annunciato il via libera all’esame, da parte di esperti incaricati dalla Procura di Roma, delle registrazioni effettuate un anno fa nella stazione metropolitana di Dokki, che Giulio frequentava abitualmente. C’è voluto un anno prima di avere la possibilità di esaminare quei filmati. Filmati che potrebbero essere importanti, perché consentirebbero di verificare come e quando Giulio fosse oggetto di pedinamento da parte della polizia o dei servizi segreti (e qui si riaffaccia il tema dei contrasti fra i due apparati, che potrebbe essere reale, ma che potrebbe anche far parte di una pianificata strategia di depistaggio). Ma prima di rallegrarci per questo tardivo spezzone di collaborazione, prendiamo atto che non c’è ancora nessuna certezza che quei filmati esistano veramente e che siano consegnati nella loro integrità. Pare infatti siano stati completamente distrutti (e perché?), e che ci si debba affidare a superesperti tedeschi, che disporrebbero di sofisticati strumenti di recupero anche del materiale obliterato.
Quindi, un anno dopo ci dicono: se volete i filmati prendeteli pure, ma badate che sono stati distrutti; vedete voi.
Quanto al video registrato da Abdallah il 6 gennaio 2016, di cui abbiamo parlato ieri, esiste veramente, ma la versione diffusa è solo parziale. E’ sufficiente per capire che Abdallah era, anzi è, un uomo disposto a tutto – anche al tradimento dell’interlocutore, ovviamente – per danaro. Ma la parte non resa pubblica del video chiarisce in modo inequivocabile che il cosiddetto capo del sindacato ambulanti, era andato a quel colloquio con Regeni con lo specifico incarico, avuto da ufficiali della National Security Agency (i servizi segreti), di incastrare Regeni e dimostrare che era una spia.
“Qui ho finito di registrare, venitemi a togliere l’apparecchiatura”, dice Abdallah alla fine del colloquio-trappola. L’uomo a cui si rivolge è un capitano dei servizi segreti, per conto del quale il cosiddetto leader degli ambulanti si era recato all’incontro con Giulio munito di microspia.
Abdallah confermerà poi, qualche mese dopo, alla Procura egiziana, il suo ruolo di doppiogiochista per conto della NSA. Ma chi sia questo capitano non si sa: pare sia già stato sentito dai magistrati cairoti ai quali avrebbe detto che ogni interesse della polizia verso Giulio si sarebbe spento dopo il 7 gennaio. Affermazione smentita da Abdallah, secondo il quale ancora il 23 gennaio – due giorni prima del suo rapimento – Giulio Regeni sarebbe stato oggetto di un ennesimo colloquio fra il cosiddetto sindacalista e l’ufficiale della National Security Agency.
Aggiungiamo che Abdallah, privo evidentemente di senso del pudore, ha ammantato la sua missione di patriottismo, affermando di aver agito in difesa degli interessi nazionali minacciati dall’attività spionistica straniera.
Il video, ripetiamo, fu girato il 6 gennaio. Nei giorni successivi Abdallah ebbe ripetuti contatti telefonici con i servizi segreti (almeno cinque telefonate fra il 7 e il 23 gennaio). Nel frattempo Giulio veniva pedinato da alcuni poliziotti, la cui testimonianza è agli atti della Procura egiziana. Testimonianza probabilmente pilotata: gli agenti affermerebbero di aver abbandonato il pedinamento di Regeni, non avendo riscontrato elementi che ne giustificassero la sorveglianza. La testimonianza di Abdallah dimostra invece il contrario.
In questo aprirsi di spiragli e in questo sgocciolamento di novità è difficile districarsi. Ci prova la Procura di Roma (Pignatone, Colaiocco), che ha chiesto al Cairo, con rogatoria internazionale, la possibilità di interrogare i poliziotti e gli agenti che fin qui risultano direttamente collegati alla vicenda di Giulio Regeni. Non sarà facile avere una risposta positiva.
Oggi Giulio Regeni è stato ricordato da tutte le autorità istituzionali come cittadino esemplare (di cui essere orgogliosi, è stato detto). Ma si stenta a cogliere da parte del governo italiano qualche forte iniziative per rendere efficace la ricerca della verità: sul piano politico, l’ambasciata continua ad essere priva del titolare, è vero; ma sul ben più significativo terreno dell’economia (i contratti miliardari che impegnano Enel ed Eni non sono stati revocati; e appena venti giorni l’Edison ha firmato un contratto di 86 milioni di dollari per l’esplorazione di gas e petrolio nel Mediterraneo) e su quello del turismo (si poteva dichiarare l’Egitto un paese a rischio) nessun passo è stato compiuto.
E manca tuttora all’appello l’Università di Cambridge, che aveva commissionato la ricerca a Giulio, ma che si è fin qui mostrata freddissima nei confronti delle sollecitazioni della magistratura italiana.