Il caso Corleone e il tentativo di imporre il silenzio

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Nella storia dello scioglimento per infiltrazioni mafiose del consiglio comunale di Corleone deciso dal governo, di per sé già carica di significato e moniti, c’è una vicenda su cui varrebbe la pena di riflettere. Una volta di più. Parliamo della volontà, dell’insopprimibile tentazione di mettere il bavaglio a chi osserva racconta i fatti.
Ma vediamo innanzitutto, in sintesi, cosa è accaduto. Gli elementi per procedere allo scioglimento per infiltrazione mafiosa a Corleone c’erano tutti. La richiesta di accesso agli atti del Comune, fatta in gennaio, duecento pagine di relazione sulle infiltrazioni mafiose e lo scioglimento decretato nel giro di sette mesi, arrivano alla fine di un’attività investigativa e giudiziaria durata due anni. L’inchiesta in tre fasi denominata “Grande Passo” di elementi gravi ne aveva individuati, eccome. Nel 2014 le indagini del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo e della Direzione Distrettuale Antimafia avevano rivelato che un gruppo di personaggi legati in vario modo ai capi storici di Cosa Nostra corleonese si dava da fare non solo con le consuete attività criminali, in particolare estorsive, ma anche per controllare e mettere le mani sul danaro pubblico.
I mafiosi monitoravano finanziamenti ad associazioni, assunzioni, appalti . Indagini che hanno riguardato tra l’altro un caseificio e la costruzione di un centro polivalente. Fra gli arrestati nella prima fase dell’inchiesta, un dipendente comunale, Antonino Di Marco, capo della famiglia di Corleone vicina ai Riina. Passa un anno e arrivano nuovi arresti, un nuovo capitolo dell’inchiesta ,e stavolta finisce in galera Rosario Lo Bue già arrestato 7 anni prima. Lo Bue è a capo del mandamento mafioso da sempre vicino alla linea di Provenzano. Dalle intercettazioni e dalle carte dell’inchiesta, insieme a storie di assunzioni, affidamenti a dir poco discutibili di servizi comunali -ora sotto esame – e scontri interni a Cosa Nostra, era saltato fuori anche il nome del fratello della sindaca di Corleone, Lea Savona.
La sindaca, durante il suo mandato (anche dopo la divulgazione dei rilievi della commissione d’accesso al comune, degli elementi raccolti dagli inquirenti e delle intercettazioni) ha dichiarato a gran voce il proprio impegno anti mafioso. Resta comunque che l’amministrazione di Corleone non si è nemmeno costituita parte civile nei confronti di Antonino Di Marco, il dipendente accusato di essere un boss che, per le riunioni di cosca, usava anche i locali comunali.
A scioglimento avvenuto, la sindaca ha contestato il provvedimento sostenendo che si è trattato di “un atto politico che ha determinato l’isolamento di Corleone e dei suoi cittadini onesti”.
Domanda: ma è lo scioglimento ad isolare i corleonesi? Oppure sono i comportamenti, gli affari e le trame mafiose? Non è questo, forse, che fa correre il rischio che si affievolisca il significato degli sforzi, fatti in questi anni, per ricordare che Corleone non è solo la città di Liggio, Bagarella, Riina, Provenzano? E che invece ha dato i natali a tanti martiri caduti per difendere i lavoratori, i più deboli, dalla violenza e dalla sopraffazione di Cosa Nostra. Il sindacalista Placido Rizzotto, per ricordare il più noto.
Una storia che, per giunta, proprio a Corleone vanta una tradizione antica e annovera esempi come quello di Francesco Bentivegna, patriota, martire della rivolta antiborbonica. Bentivegna si era distinto per aver guidato lotte democratiche di emancipazione dal feudo e contro lo strapotere di campieri e gabellotti che incarnavano le prime forme del potere mafioso. Sia la storia nobile che i cittadini onesti di Corleone vengono ricacciati indietro dai protagonisti della storia criminale, dagli affari mafiosi del presente, ma anche da chi vuole ignorare o peggio nascondere che Cosa Nostra ha radici profonde non ancora sradicate.
Ma c’è qualcos’altro che non va sottovalutato. A Corleone, ancora una volta, negli ultimi mesi qualcuno, al grido di “vogliono criminalizzare una cittadina e una comunità”, ha fatto ricorso prima al vittimismo e poi a vere e proprie bordate contro chi raccontava i fatti. Un fuoco di sbarramento cominciato anche prima dello scioglimento del Consiglio Comunale, in occasione di una processione e della segnalazione fatta alla Procura dalle forze dell’ordine a proposito dell’inchino della statua di San Giovanni Evangelista davanti alla casa di Totò Riina e Ninetta Bagarella. Quando Salvo Palazzolo, giornalista di Repubblica, attento e coraggioso, profondo conoscitore del fenomeno mafioso, aveva pubblicato la cronaca della processione erano fioccate minacce di querela. Quando poi Dino Paternostro, giornalista e dirigente sindacale responsabile della Legalità per la Cgil di Palermo, aveva postato su Facebook l’articolo di Palazzolo erano volati anche gli insulti. Ed era sceso in campo anche il genero di Totò Riina, Tony Ciavarello, che aveva commentato: “Buffone lei e il suo collega che ha scritto l’articolo”. Un’uscita intollerabile, indecente.
E invece il lavoro di Salvo Palazzolo e dei giornalisti che come lui hanno tenuto gli occhi ben aperti su Corleone è un aiuto prezioso e insostituibile proprio per la stragrande maggioranza di cittadini onesti, che in questi anni hanno scelto se non di contrastare il fenomeno mafioso, almeno di prenderne le distanze tagliando i ponti con Cosa Nostra e con i mafiosi, quelli con tanto di pedigree e quelli che mostrano molte maschere, una per ogni occasione.

*Fonte: Liberainformazione.it


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