I “sonnambuli” che danzano sull’orlo del baratro

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Il ristorante nell’area diplomatica di Dacca, l’aeroporto di Istanbul, lo scorso anno la spiaggia e il museo tunisino, le continue bombe che devastano da anni l’Iraq, la Siria sprofondata nel baratro di una disperazione senza ritorno: non c’è dubbio che la guerra in corso, che ha nell’ISIS e nel suoi stragismo il proprio apice, sia innanzitutto un conflitto interno al mondo sunnita e al mondo islamico in generale, il cui riverbero finisce inevitabilmente col colpire le nostre certezze, le nostre flebili sicurezze, le nostre speranze di normalità e le nostre serate di svago e di ristoro, costringendoci a fare i conti con una realtà alla quale non solo non siamo abituati ma della quale abbiamo, onestamente, il terrore.

A spaventarci di questo nemico sanguinario e inafferrabile non è tanto la ferocia (storicamente abbiamo conosciuto fenomeni ugualmente violenti e li abbiamo fronteggiati e sconfitti, sia pur nell’arco di vari decenti e al prezzo di innumerevoli vite innocenti) quanto il suo essere indecifrabile, abilissimo ad insinuarsi nelle nostre vite, a entrare nella nostra quotidianità per sconvolgerla, a penetrare nelle nostre strade, nei nostri bar, nei nostri teatri, in quei pochi, sporadici frammenti di tranquillità che ci sono rimasti nel contesto di una società sempre più liquida e priva di punti di riferimento.
Così, a un secolo dalle battaglie di Verdun e della Somme e dalla divisione artificiale dei confini dell’ex Impero ottomano, stabilita nell’accordo Sykes-Picot, esattamente cent’anni dopo ci troviamo a fare i conti con un universo più che mai frastagliato, con un’Europa in preda al delirio, sconvolta dall’ascesa di movimenti demagogici e pericolosi che minano ogni equilibrio, indigeni proprio come il jihadismo, anch’essi nati nei nostri sobborghi, nelle nostre periferie disperate, nella nostra miseria, nella nostra decadenza, nel nostro malessere e nel nostro malumore che alimentano scientemente nella speranza di passare all’incasso quando i cittadini sono chiamati alle urne.
Lo stesso vale per il terrorismo islamico: non viene da fuori, non arriva con i barconi o con le rotte di terra, non proviene dalla Siria o dall’Iraq, dove al massimo i futuri “martiri” si sono recati a combattere per radicalizzarsi e apprendere i rudimenti della lotta armata; nasce, al contrario, nelle nostre carceri, dove i suoi carnefici si sono ritrovati per reati comuni e hanno incontrato i predicatori d’odio in grado di convincerli a seminare morte e terrore per votare la propria esistenza alla lotta senza quartiere contro un modello socio-economico oggettivamente insostenibile. E ancora: nasce, come detto, nelle nostre periferie dimenticate, là dove dilaga l’esclusione sociale, in nome di un modello di integrazione fondato sulla ghettizzazione (in Gran Bretagna) o sulla retorica dei sacri valori repubblicani (in Francia) che ha fallito il proprio scopo, al pari del capitalismo liberista trasformatosi, nell’ultimo trentennio, in un’ideologia fondata sull’incremento smisurato delle disuguaglianze.
L’islam travisato, dunque, storpiato ad arte e trasformato in un’ideologia aggregante e, al tempo stesso, assassina, come se potesse esistere o essere minimamente accettabile un Dio in nome del quale vengono commessi crimini e barbarie che sono contrari all’essenza stessa di qualunque religione.
Una guerra ideologica, a dimostrazione che di un’ideologia, anzi di più d’una, c’è un gran bisogno anche nel contesto di una società priva di valori, di princìpi e di quel motore della storia senza il quale ogni aspirazione umana è destinata ad arrendersi.
Lo scontro feroce fra l’ideologia della prepotenza occidentale e quella della reazione smisurata che parte da lontano, lotta al proprio interno per affermarsi sulla versione moderata e civile dell’islamismo che rifiuta di farsi spada e, in base alla tecnologia moderna, mitragliatrice e infine giunge nelle nostre città: nella Parigi benestante ed ironica del settimanale “Charlie Hebdo”, nella Parigi della felicità giovanile, nella Bruxelles cuore delle istituzioni europee e, in precedenza, nella Londra meta prediletta delle vacanze-studio e dell’Erasmus di milioni di ragazzi provenienti da ogni parte del mondo e nella Spagna rea di essersi schierata, ai tempi di Aznar, al fianco di Bush e Blair nella sciagurata invasione dell’Iraq, le cui conseguenze sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Un terrore che ci attanaglia, che vive con noi, che condiziona le nostre vite e ci segue ovunque: una fobia collettiva dalla quale sarà molto difficile emanciparsi, visto che i nostri volti al cospetto di uno straniero, e peggio ancora di un arabo, in treno, sull’autobus o in un qualunque aeroporto del pianeta, parlano da soli. E non sarebbe corretto liquidare questa percezione di insicurezza e quest’apprensione perenne come un mero atto di razzismo: non è così. Sono i frutti avvelenati di quindici anni, perché tanti ne sono trascorsi da quell’infausto 11 settembre del 2001, che hanno mutato per sempre i destini dell’Occidente e gli equilibri dei nostri stati, rendendoci improvvisamente piccoli, fragili, inadeguati ad affrontare le sfide della modernità, soli, prigionieri di schemi ormai superati, con ideologie invecchiate e annichilite dalla complessità di un tempo mutevole e di un quadro sociale dagli assetti radicalmente diversi rispetto a quelli novecenteschi, incapaci di produrre un pensiero all’altezza di un futuro imprevedibile e arroccati in difesa dei pochi diritti e delle poche certezze che ci restano, con il vano auspicio che ciò basti a contrastare il delinearsi di un contesto per cui le lenti dell’altro secolo non solo non bastano ma risultano addirittura offuscate.
Per dirla con un’espressione romantica ma di sicura efficacia, ci vorrebbero nuovi occhi e nuove coscienze per osservare e comprendere la complessità e la configurazione multipolare di questo mondo in cui, ormai, non esiste più un attore egemone, un gendarme, uno Stato guida ma un insieme di nazioni di primo piano che, volenti o nolenti, sono chiamate a collaborare e a cooperare fra loro se non vogliono che la mattanza jihadista abbia la meglio e il Vecchio Continente di disgreghi sotto i colpi di una crisi economica ben lontana dall’esaurirsi e sotto le spinte devastanti di compagini politiche la cui vertiginosa ascesa ha radici e motivazioni che vanno ben al di là del populismo e di altre etichette semplicistiche con le quali abbiamo tentato per anni di sopire il dibattito e di troncare la questione, spaventati a nostra volta dall’idea di doverci guardare allo specchio per fare i conti con almeno tre decenni di errori, cedimenti, subalternità e connivenze con quell’ideologia prepotente chiamata liberismo che è stata incubatrice sia della sete di potere e di ricchezza da cui sono scaturite le guerre di inizio secolo sia del disastro sociale, economico e politico cui stiamo tuttora assistendo.
Un grande storico, Christopher Clark, per definire gli europei che scivolarono quasi inconsapevolmente nel baratro della Prima guerra mondiale, ha parlato di “sonnambuli”. Non trovo definizione migliore per i nostri governanti che, di fatto, ci hanno già trascinati in più di un conflitto, perché in fondo anche la crisi tale è, senza avere né una soluzione per uscirne né il coraggio di chiamarlo con il proprio nome.
Un tempo ci arrampicavamo sugli specchi spacciando i conflitti per “missioni di pace”, poi ci siamo illusi di poter interpretare la catastrofe di un declino generalizzato che ha mutato per sempre la composizione sociale dell’Occidente e i suoi assetti di potere rifugiandoci in fumosi dibattiti televisivi sullo spread e i tassi d’interesse, infine è arrivato un uomo vestito di bianco, proveniente “dalla fine del mondo”, che ha detto chiaramente che si sta combattendo una Terza guerra mondiale differita. E d’improvviso, tutte le nostre analisi fondate sul nulla e su un esasperante tatticismo privo di ogni visione hanno rivelato la nostra statura di nanerottoli, travolti dalla conclusione di un secolo e di un millennio che avevamo provato disperatamente a rendere eterni.


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