Giornalismo sotto attacco in Italia

Cento giorni dal ritrovamento di Regeni. Nuove accuse, nessuna risposta dall’Egitto

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Cento giorni fa, ai bordi di una strada periferica del Cairo, veniva ritrovato il corpo di Giulio Regeni. Nei giorni scorsi Human rights watch ribadiva quanto molti di noi sapevano, davano per scontato: i sistemi che hanno portato alla sua morte sono quelli utilizzati dai servizi segreti del generale al-Sisi sugli egiziani arrestati e finiti nelle carceri ad alta sicurezza in Egitto.
Quanto meno gli stessi di cui sono stati vittime venti detenuti sui quali ha indagato un ricercatore al Cairo della ong americana.
L’analista di Hrw ha vissuto fino alla settimana scorsa nella capitale del paese nordafricano e ha seguito decine e decine di episodi di tortura.
La ricerca sulle pratiche adottate per costringere a confessare oppositori, attivisti, giornalisti o, come nel caso di Regeni, cittadini stranieri sospettati di spionaggio o di atti che possano mettere a repentaglio la sicurezza nazionale, sarà pubblicata nei prossimi mesi.
L’inchiesta, nelle ultime settimane, ha focalizzato l’attenzione su una ventina di prigionieri sotto la custodia di uomini della National Security che, dopo la rivoluzione del 2011, ha cambiato denominazione ma ha mantenuto lo stesso modus operandi.
Si passa dalle percosse, all’applicazione di elettrodi per indurre scosse elettriche, alla minaccia di stupro, spesso compiuto con spranghe di ferro.
Tali procedure per Human Rights watch sono gestite dagli appartenenti a questo organo di Stato che sottopone i malcapitati detenuti ai violenti e coercitivi interrogatori lunghi dai tre giorni a una o più settimane. Alcuni scompaiono anche per mesi.
A determinare la ‘lunghezza’ delle loro sofferenze i tempi di ammissione di colpevolezza. Perché alla fine tutti confessano. O spariscono per sempre. Oppure, come Giulio Regeni, finiscono in un fosso.
Cento giorni dopo il ritrovamento del corpo del nostro connazionale appare sempre più evidente che sia stato ucciso per non aver ceduto ai suoi inquisitori. Non hanno creduto che non avesse nulla da raccontare.
Oggi, più che mai, continuiamo a chiedere come Amnesty International ‘verità e giustizia per Giulio’. E non smetteremo fino a quando non avremo le risposte che meritano i genitori, Paola e Claudio, la sorella Irene e l’Italia tutta.


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