Elezioni Spagna: è in atto il cambiamento. Dal basso

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Il Pp resta il primo partito con 123 seggi su 350 ma non può formare un governo e perde oltre 63 seggi. Il Psoe conserva il secondo quanto a deputati, 110, ma viene scavalcato in voti assoluti da Podemos, che si consolida come seconda forza nazionale con 69 seggi ed è forse l’unico chiaro vincitore di questo voto. Ciudadanos viene ridimensionato dalla campagna elettorale, ottiene il quarto posto e 40 deputati, in un risultato deludente ma comunque importante. Izquierda Unida mantiene due deputati ma il suo ruolo rischia di diventare testimoniale. L’accelerazione indipendentista catalana viene ridimensionata dalle urne, confermando che la soluzione al problema passa per una riforma costituzionale come progetto nazionale e non per avventurismi secessionisti. Un quadro che rappresenta l’inizio della fine del cammino della Costituzione del 1978, oltre che del bipartitismo. Nella resistenza dei partiti storici, gli spagnoli hanno scelto il cambiamento. Si apre un periodo di grande incertezza, con la formazione di un governo che risulta molto difficile e la concreta possibilità che si torni alle urne fra due mesi. Questo, per titoli, è quanto ci dice il voto di ieri.

I leader si sono presentati sorridenti, circondati dai loro stati maggiori. Ascoltandoli parrebbe che abbiano vinto tutti. Mariano Rajoy dietro il mantenimento del primo posto nasconde il crollo del partito. Pedro Sánchez ha festeggiato il peggior risultato della storia dei socialisti con paradossale sollievo. Il mantenimento del secondo posto in seggi, con una perdita rispetto allo scorso Parlamento di 20 deputati, gli consente di rivendicare un risultato. Ma già lo scorso Parlamento rappresentò il record elettorale negativo del Psoe e il crollo del granaio di voti catalano è una pesante ipoteca per il futuro.

Ciudadanos nasconde con difficoltà la delusione di un voto che ha molto ridimensionato le sue aspettative e i sondaggi che, inizialmente, li davano battersi addirittura alla pari col Pp. Era sovrastimato ma la gara è stata persa nella campagna elettorale, la mancanza di figure autorevoli e credibili è stata pagata duramente. Albert Rivera può però affermare che “il centro esiste ed è rappresentato da Ciudadanos”.

Podemos festeggia. Resta dietro al Psoe quanto a deputati ma però saldamente il secondo partito più votato e, soprattutto, domina in Catalogna e Paese Basco, motori economici del paese e fulcro della questione territoriale. Le buone prove delle amministrazioni conquistate e la scelta di abbandonare il radicalismo anticapitalista delle origini ha premiato i viola che possono sedersi al tavolo delle trattative imponendo le proprie condizioni, tra i quali la celebrazione di un referendum catalano.
I partiti sono davanti al difficilissimo compito di formare un governo. L’unica maggiornaza chiara sarebbe quella tra popolari e socialisti ma le pressioni che vengono dall’Europa per un governo di larghe intese molto difficilmente potranno essere accolte, anche nella più blanda forma di un’astensione socialista per consentire il varo di un governo del Pp. Gli spagnoli non apprezzerebbero. Un accordo renderebbe Pp e Psoe bersaglio degli strali distruttivi di Podemos e Ciudadanos, pronti a approfittare di ogni errore. L’elettorato socialista la vedrebbe come un’alleanza col sistema della corruzione e la definitiva conferma delle ragioni di Podemos.

I commentatori italiani, per lo più, hanno scritto prescindendo totalmente dalla realtà della situazione spagnola. I richiami alla conferma della validità dell’Italicum appaiono senza senso. Altri, ben più sperimentati, sono gli strumenti che la democrazia spagnola si è data per coniugare stabilità e rappresentanza democratica. Sfiducia costruttiva, maggior forza del capo del governo, sia rispetto al Parlamento che alla propria maggioranza, con la possibilità di licenziare i ministri e di indire elezioni anticipate, sono solo alcuni. Già l’attuale sistema elettorale, fatto su misura per accrescere la rappresentanza del voto del Pp – e che favorisce i partiti nazionalisti localizzati territorialmente rispetto al voto diffuso – è al centro delle critiche. Un “Italicum”, sarebbe giudicato come un tentativo di sovvertire le regole del gioco democratico.

I paragoni tra Podemos e Grillo o Le Pen, la descrizione di Ciudadanos come partito antipopulista, proposta da parte della stampa italiana, sono sconcertanti per la loro infondatezza. La strumentalità, l’uso delle vicende estere a fini di lotta politica interna, sembrano rendere impossibile l’analisi di quanto accade.

La crisi dei vecchi partiti e l’irrompere dei nuovi non si comprendono se non si guarda al fatto che il cambiamento del quadro politico che esce dalle urne è solo un altro passaggio di una profonda trasformazione che è già in atto, e riguarda l’intero “progetto” della Spagna democratica.
Il sistema della Spagna delle autonomie, disegnato dalla Costituzione del 1978, non riesce più a rispondere alla richiesta di rappresentazione e di partecipazione alla vita democratica. Il carattere plurinazionale della Spagna – affrontato nella modernità dalla Seconda Repubblica e soffocato nella repressione della dittatura franchista che ha imposto il trionfante nazionalismo “castigliano-centralista” – non entra più nella cornice di uno stato centralista che concede un federalismo di fatto ma non formale alle periferie. Questo è il nucleo della crisi spagnola.

Il sistema delle autonomie, el café para todos, sacrificò sull’altare della costruzione del consenso democratico le rivendicazioni delle nazionalità basca, catalana e galiziana. Certo, il riconoscimento delle lingue co-ufficiali, insegnate a scuola, utilizzate nella pubblica amministrazione, rappresenta di più ma, certamente, rispetto all’ipotesi federalista, fu una mediazione profonda, allora necessaria, oggi inadeguata.

La fine delle ideologie del ‘900 e la crisi delle appartenenze politiche hanno fatto sì che l’appartenenza linguistica e nazionale fosse la principale risposta al bisogno identitario. Lasciata alla dialettica degli opposti nazionalismi, centralista e periferici, la ferita si è infettata, ipotecando la capacità del paese di affrontare le sfide contemporanee.
Sarebbe riduttivo leggere la crisi politica solo come conseguenza della degenerazione del sistema partitico. Corruzione, malgoverno – la retorica della “Casta”, che riduce la democrazia alla sua degenarzione, esportata con successo nel discorso politico spagnolo – sono il catalizzatore. Prima c’è però la crisi dei grandi partiti di massa, con la frammentazione della rappresentanza sullo sfondo dell’esaurimento del sistema sancito dalla Costituzione del ’78.

Il cambiamento è già in atto, iniziato “dal basso”, e questo voto giunge a sancirlo formalmente. Con la formazione dei nuovi partiti e, prima, con l’incontro tra il movimento degli Indignados e la vasta rete di associazioni di vicinato che costituiscono la spina dorsale della società civile spagnola.
I ragazzi che occupavano le piazze – rifiutando sempre la violenza e “studiando la democrazia” – hanno parlato a tutta la società: destra, centro e sinistra. “La migliore generazione spagnola”, come disse José Luis Rodríguez Zapatero, preparata, dialogante, curiosa e appassionata, ha rappresentato la reazione del “sistema immunitario” della democrazia spagnola alla crisi del sistema. E’ Podemos a offrire lo strumento principale, il partito e le liste di confluenza che si formano attorno a esso, per l’impegno e la partecipazione e obbliga la sinistra tradizionale – Psoe, ecologisti e ex comunisti – a ripensare modi e ruoli del fare politica. Ma anche l’esperienza di Ciudadanos ne discende in parte, e obbliga il Pp a rinnovarsi.

Si apre un periodo incerto ma pieno di opportunità, se solo la politica saprà affrontarlo senza cercare scorciatoie. I grandi partiti sono davanti a un bivio e si giocano il loro futuro. Occorrerà responsabilità per coniugare la richiesta di maggior rappresentatività mantenendo la stabilità politica. Gli spagnoli, che stanno dando prova di amore per la democrazia e impegno, rappresentano una risorsa fondamentale per la politica.

Il varo di un governo non è un traguardo per niente certo e si potrebbe tornare al voto in due mesi. Le larghe intese sono rifiutate dagli spagnoli, per i quali, adesso, la democrazia delegata non è disimpegno né cessione di sovranità alle élites. Il voto non fa paura ma è visto dai cittadini come la più importante arma a loro disposizione per influire sulla politica. La stabilità non è feticcio al quale sacrificare la democrazia, come pensano a Bruxelles. Inizia un periodo gravido di incertezze ma pieno di speranza. Nella crisi che attraversa le democrazie europee dovremmo essere grati, e seguire con rispetto, alla ricerca senza timori della Spagna di un progetto per la contemporaneità e per il futuro. La rigenerazione della democrazia europea passa anche da qui.


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