Selma, i migranti e la marcia per la libertà

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Proprio in questi giorni nei quali abbiamo assistito all’esodo biblico dei migranti dalla Siria, mi è capitato di vedere “Selma”, il capolavoro prodotto e interpretato da Oprah Winfrey che racconta la marcia degli afroamericani, guidati dal reverendo King, che ebbe luogo da Selma a Montgomery (Alabama) fra il 21 e il 25 marzo 1965. Anche allora una marcia per la libertà e per i diritti, quello di voto su tutti, garantito formalmente dalla Costituzione americana ma reso, di fatto, impossibile per i cittadini di colore dalle restrizioni burocratiche e dalle vessazioni razziste e discriminatorie messe in atto dagli stati del Sud per impedire loro di iscriversi alle liste elettorali.

Anche allora un sogno, una speranza, un lungo cammino di uomini e donne che ebbero il coraggio di sfidare aggressioni e manganelli, soprusi e violenze, nonché i pregiudizi radicati da secoli nel cuore dell’America e lo scetticismo di chi era convinto che le cose non sarebbero mai cambiate, per rivendicare il fondamentale valore dell’uguaglianza e della libertà, la dignità delle minoranze e la necessità per il paese di abbattere le barriere invisibili che ne frenavano la crescita morale e culturale, oltre che la convivenza civile.

Senza quella marcia, senza il “bus boycott” che fece seguito all’arresto di Rosa Parks, sempre in Alabama, il 1° dicembre 1955 per essersi rifiutata di cedere il proprio posto in autobus a un bianco, senza il memorabile discorso di Martin Luther King a Washington il 28 agosto 1963, senza la passione politica e civile, i consensi degli artisti e della gente comune, la solidarietà internazionale e la partecipazione convinta di milioni di giovani che questo movimento seppe mettere in moto, senza l’unione di tutti questi fattori non avremmo mai avuto un presidente nero, per giunta rieletto nonostante abbia dovuto fronteggiare la più grave crisi economica dal ’29.

Ebbene, oggi possiamo dire che senza questa fuga di massa dalla miseria e dalla fame, da un paese, la Siria, che ormai non esiste più e da un continente, l’Africa, in cui la nostra criminosa spoliazione di risorse e diritti ha ridotto interi popoli all’indigenza, senza questa nuova marcia per la libertà l’Europa sarebbe stata condannata all’estinzione.

Questo nostro continente invecchiato e moralmente fragile, prigioniero del suo egoismo e di ricette economiche sbagliate, questo nostro continente privo di una classe dirigente all’altezza, questo nostro continente che ha preferito soffocare la Grecia e il suo governo legittimamente eletto piuttosto che ammettere il fallimento di dogmi e dottrine ampiamente messe in discussione ovunque, compresi autentici santuari del liberismo come il Fondo Monetario Internazionale, quest’Europa potrà forse tornare a vivere grazie al sorriso di quel bambino siriano avvolto nella bandiera dell’Unione, grazie ai cittadini ungheresi che hanno deciso di ribellarsi al razzismo insulso e anti-storico di Orbán, offrendo acqua e frutta lungo la strada ai profughi in marcia, grazie ai cittadini tedeschi che hanno riscoperto, in quest’occasione, quei princìpi di umanità che avevano calpestato e deriso quando si era trattato di venire in soccorso dei fratelli greci, grazie alle speranze e alla voglia di lavorare di chi è venuto da noi per guadagnarsi onestamente da vivere e per regalare un avvenire migliore alla propria famiglia; grazie a tutti questi elementi, possiamo forse dire che oggi l’Europa è salva o, quanto meno, che ha qualche possibilità in più di intraprendere un nuovo cammino.

E sempre grazie a loro, agli ultimi della Terra, dei quali finora si era preso cura solo papa Francesco, anche le leadership peggiori come quella di David Cameron potranno riacquistare un minimo di credibilità internazionale, dopo la vergogna di Calais, le sparate anti-europeiste e i comportamenti thatcheriani che sembravano aver allontanato definitivamente l’Inghilterra dal resto d’Europa.

E magari, ma non coltiviamo eccessive illusioni, grazie a loro i partiti peggiori, animati da un populismo cieco e intollerabile, feroce e malvagio, xenofobo e devastante per un tessuto sociale già allo stremo, magari cominceranno ad apparire per ciò che sono realmente: un coacervo di personaggi inadeguati e pericolosi dai quali tenersi alla larga, un insieme di soggetti cui sarebbe inopportuno affidare anche solo la gestione di un condominio, figuriamoci la guida di paesi importanti che, in alcuni casi, sono addirittura fra i padri fondatori del progetto europeo.

Probabilmente anche loro, per un po’, dovranno fare i conti con la commozione suscitata dall’immagine straziante del piccolo Aylan, tre anni, riverso sulla spiaggia turca di Bodrum dopo essere annegato, insieme alla madre e al fratellino di cinque anni, mentre cercava di raggiungere le coste greche; ma dovranno fare i conti anche col risveglio delle coscienze suscitato dalle foto di felicità, di sincera gioia, di magnifica e profonda bellezza che abbiamo visto alla stazione di Monaco, dove i migranti sono stati accolti con tutto il calore di cui ha bisogno chi ha visto case venire giù, parenti e amici morire sotto le bombe, sevizie, massacri e brutalità d’ogni genere e ora ha bisogno solo di pace, di armonia, di essere considerato nuovamente un essere umano.

Anche loro dovranno rendersi conto che la marcia dei migranti del 2015 non è poi così dissimile da quella degli afroamericani in Alabama del 1965, in quanto si tratta, in entrambi i casi, di un percorso verso la libertà, verso la luce, verso la conquista di un orizzonte che sembrava precluso e che invece, prima o poi, si schiuderà, per il semplice motivo che i figuri alla Orbán non potranno mai arrestare, con la loro pochezza, il percorso della storia e il desiderio di salvezza di una moltitudine in lotta per difendere quel bene prezioso che è la vita.

Non sarà un filo spinato a fermare madri e padri che vogliono donare ai figli un futuro diverso da quello tragico di Aylan, così come non bastarono i manganelli e i lacrimogeni a fermare le rivendicazioni di chi chiedeva, nel cuore dell’America segregazionista, di essere considerato un essere umano con pari diritti e pari dignità.

Infine, lasciateci dire, con un pizzico di autocompiacimento, che una volta tanto questo drammatico esodo, di fronte al quale l’Europa non si è più potuta permettere il lusso di voltare lo sguardo dall’altra parte, è una vittoria di tutti noi che abbiamo sempre sostenuto che l’unica possibilità che ha l’Unione Europea di trasformarsi in Unione politica, dotata di una legittimazione democratica, è quella di accantonare gli interessi dei privati, delle banche e dell’alta finanza e di rimettere al centro le persone, con le loro storie, la loro cittadinanza e la loro volontà di guardare al futuro.

In fondo, questa migrazione di massa ci dice che i nostri sogni e le nostre aspirazioni non sono poi così diverse dalle loro, anzi che sono le stesse, e che era necessaria la forza dirompente dell’uomo per restituire alla casa comune una qualche ragione di esistere.

Per una volta, e speriamo che sia quella definitiva, hanno perso i tecnocrati e tutti i fascismi sparsi per il Vecchio Continente, ha perso la loro grettezza, la loro stupidità, il loro odio privo di senso e capace unicamente di erigere muri e di far star male la collettività. Hanno perso perché, come al solito, non hanno capito nulla ma, soprattutto, perché la statistica e l’aridità delle cifre non potranno mai prevalere su una comunità che ha deciso di invertire la rotta del proprio destino.


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