Quando l’odio è un business

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In un certo senso è un sollievo rendersi conto che è stata colpa della mafia, che il mio paese non è davvero così razzista come è apparso in questi giorni. Perché sapere che c’erano dietro degli interessi personali rende certe frasi e certe immagini meno feroci. Una conferma, un’altra, che l’odio razziale non è una bomba che esplode da sola, c’è sempre qualcuno che da lontano ne stuzzica il detonatore.

Improvvisamente tutto appare chiaro, anche l’accanimento contro il Campidoglio che evidentemente stava ostacolando qualche manovra. In effetti era sembrata un po’ troppo eccessiva persino a me, che non sono una grande fan del sindaco, la reazione per una multa alla macchina di Marino. A volte vogliamo proprio leggerli a senso unico i fatti e così quell’episodio era diventato il solito “questi potenti che ci sbattono in faccia la loro arroganza”, là dove l’arroganza era una Fiat Panda.

Quando il Mondo di mezzo di Massimo Carminati viene alla luce io tiro un sospiro di sollievo involontario perché ingenuamente penso che sia più umano manovrare, distorcere e far del male per perseguire un interesse personale piuttosto che rigettare tanto odio contro qualcuno senza motivo. Massimo Carminati è sempre stato nel mezzo, anche ai tempi in cui la militanza politica sfociava spesso e volentieri nella lotta armata e incontrare persone con gli stessi interessi poteva succedere a scuola, così ecco che si era trovato a fungere da collettore tra l’estrema destra organizzata dei NAR e la malavita comune che imperava a Roma in quei tempi, la Banda della Magliana. La nostra televisione, che non risparmia a nessuno l’evidenza di una mancanza di idee originali, ha dedicato anche a lui un ruolo nella fiction trasformandolo nel bellissimo “Nero” sebbene il suo soprannome fosse il poco telegenico “Cecato” per via della perdita di un occhio durante il tentativo di espatriare in Svizzera finito male nel 1981.

Ripenso a quelle violenze gratuite, a quelle manifestazioni di fastidio a quelle dichiarazioni fra la rabbia e il sarcasmo: «Non siamo noi che siamo razzisti, so’ loro che so’ negri» con cui si riempivano la bocca improbabili “normali cittadini” di Tor Sapienza prima di scagliarsi contro il centro di prima accoglienza e i tanti profughi che lì erano finiti. Ripenso a questo e mi fa meno male da quando è venuta a galla la verità legata ai rifugiati, un business prezioso: «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno. Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero» dichiarava al telefono Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa “Rebibbia 29 giugno” che si occupa dell’inserimento sociale dei detenuti, a Pierina Chiaravalle, un’altra arrestata nell’operazione Mondo di Mezzo. Già perché il giro degli amici che faceva capo a Massimo Carminati consentiva alla cooperativa del Buzzi – la cui presidentessa Emanuela Bugitti è quella brigatista che ha scontato 16 anni e mezzo per l’omicidio del commissario capo dell’antiterrorismo Alfredo Albanese – di arraffare gli appalti necessari per dormire sonni d’oro. Il giro aveva altre figure essenziali perché tutto filasse liscio: Luca Odevaine, ex capo di gabinetto di Veltroni e con un ruolo decisionale nella gestione dei “flussi” al tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza ai rifugiati nel dipartimento per le libertà civili del Ministero dell’Interno, spingeva per favorire le cooperative amiche; e Franco Panzironi, il numero uno dell’AMA, garantiva gli appalti sulla raccolta dei rifiuti e il mantenimento del verde pubblico.

Capito adesso perché tanto razzismo a Tor Sapienza?
Non ce l’avevano mica coi negri, il loro problema era che quel ghiotto business di miserabili appena sbarcato non stava cadendo nelle loro mani.
E la senatrice a 5 stelle Paola Taverna che prontamente aveva tentato di portare solidarietà era stata contestata e respinta a male parole perché doveva essere la ribalta di qualcun altro, qualcun altro che poi è apparso in effetti. Ma questo tipo di politica non ha regole, segue l’aria del momento e la controlla facendo leva sui nostri istinti più biechi e si ciba della nostra miseria alimentandola perché solo così può raggiungere i suoi scopi che non coincidono mai, nel profondo, con quelli di nessun altro.


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