Storia di Awad, del suo piccolo Corano e della vita che vuole più grande di un respiro

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Il suo piccolo Corano in arabo Awad lo conserva in una scatola di scarpe, avvolto in un panno bianco. Lo maneggia con cura e con grande rispetto e non lo tocca con le mani. È tutto quello che gli resta della sua vita precedente. Ed è grazie a quel piccolo libro sacro, dice Awad, che è ancora vivo, che è sopravvissuto alla violenza prima, al deserto e al mediterraneo poi.

Awad è nato nella Repubblica Centrafricana diciotto anni fa. Diciotto quasi tondi, li ha compiuti da pochi giorni quando mi racconta la sua storia. I suoi genitori sono morti, uccisi nei combattimenti, in quelle violenze che Souleymane Diabaté, rappresentante UNICEF in quel paese dice “fanno torcere le budella per la loro brutalità e la loro ferocia”. Ma Awad è fortunato, perché di solito sono i bambini a morire per primi in quella guerra di cui il mondo non si vuole accorgere: uno al giorno, mutilato o ucciso. Negli ultimi sei mesi 277 bambini sono stati mutilati e 74 sono stati uccisi.

Scrive Roberto, infermiere del team di chirurgia di guerra di Emergency nel diario online dalla capitale Bangui: “Ne sono arrivati 12 stasera, tutti tra i 10 e i 15 anni, pieni di schegge dai piedi alla faccia, tutti impauriti come agnelli. Uno di loro è grave, Antonio e Paul lo portano in sala operatoria subito. Verso la fine dell’intervento va in arresto cardiaco: Giovanna l’anestesista prova a recuperarlo, ma ha perso troppo sangue. Adesso, mentre scrivo, siamo appena arrivati a casa, lui è nella terapia intensiva che abbiamo approntato qui a Complexe pédiatrique, sembra stabile ma rimane grave, nei prossimi giorni vedremo se le gambe sono salve o no. E domani ce ne saranno altri 6 da operare per ferite meno gravi. Molti di loro indossavano maglie tarocche e sdrucite del Barcellona, del Chelsea, dell’Inter. Giocavano a pallone, insomma“.

Anche Awad vuole fare il calciatore è tifoso del Chelsea, ma adesso tifa Italia. É scampato all’inferno e vive in Italia, in una comunità per minorenni. Ha appena compiuto diciotto anni. Ma la sua storia nuova inizia quando ne aveva solo 12 e si è messo in viaggio attraverso il deserto.

Gli sfollati nella Repubblica Centrafricana sono almeno un milione. La metà sono bambini. Awad è uno di loro. “Ci siamo messi in cammino alle sei di mattina, io ed il mio amico Ezechiel. Abbiamo trovato un camion che ci portava in Sudan, a Khartoum. Quando siamo arrivati io ero senza scarpe. C’erano delle persone che andavano in Libia, volevamo andae con loro ma un ignore mi ha chiesto; Awad, ma ce li hai i soldi per l’acqua. Senza acqua nel deserto sei morto.” Awad non ha soldi e neanche le scarpe. Con il suo amico inizia a cercare il modo di attraversare il deserto. Trova delle scarpe, una bottiglia d’acqua a testa e si mettono in viaggio. A piedi. “Eravamo in trenta quando siamo partiti. Seguivamo le stelle finchè sono arrivati i ladri del deserto. Ci hanno circondati, ci hanno derubati di tutto quello ce avevamo. Ad Ezechiel, hanno tolto anche i pantaloni. Ci hanno tenuti prigionieri per un giorno, poi sono andati via.” il racconto di Awad è disarmante per la sua semplicità tragica. Racconta di una donna che per prima si è arresa. Si è stesa a terra, ha poggiato la faccia sulla sabbia. In pochi istanti si era ustionata perché la sabbia del Sahara è rovente. Ma non se ne è accorta, dice Awad, perché era morta. Morta di stenti, morta di sete, morta per le violenze subite dai predoni del deserto e da quelli venuti prima. “Siamo rimasti dodici giorni nel deserto. Eravamo trenta, siamo sopravvissuti in tre.” Awad racconta della morte del suo amico Ezechiel, sgozzato da un secondo gruppo di ladri del deserto, più cattivi dei primi, dice Awad. “Ezechiel era senza pantaloni. Uno dei ladri era sicuro che tenesse delle monete in bocca. Lo ha preso per il mento con una mano. Con l’altra gli ha tagliato la gola. L’ho visto che cadeva e si rialzava, cadeva e si rialzava. Il sangue usciva come da un rubinetto. È morto così Ezechiel, davanti ai miei occhi, con la gola tagliata e senza pantaloni.” Awad parla un italiano discreto. Accompagna le parole con dei gesti molto eloquenti. È nero come il carbone, gli occhi un po’ nascosti sotto le treccine, guardano dritti davanti. Sembra molto più grande dei suoi diciotto anni.

Riavvolge il suo piccolo Corano nel panno bianco, facendo attenzione a non toccarlo. Poi chiude la scatola e mi invita ad uscire. Vuole giocare a pallone, vuole farmi vedere quanto è bravo. Ce ne sono almeno quattro di palloni sulla veranda. Se li scambiano una quindicina di ragazzi di molti colori, quasi tutti africani, tutti sopravvissuti a storie simili a quella di Awad. Rifugiati su questa collina in mezzo alla campagna fuori Benevento.
Sul dizionario la parola rifugiato corrisponde a questa definizione: “chi, in seguito a vicende politiche, è costretto a cercare rifugio in un paese straniero.” Una definizione secca che non sembra coincidere con le storie, sicuramente non rende l’idea.

La giornata mondiale del rifugiato qui non è proprio una ricorrenza importante. Neanche i diciotto anni lo sono, in realtà. La prospettiva è molto più ampia di una sola giornata. Si estende su una vita intera che deve essere più grande di un respiro. Si deve ricalibrare su una prospettiva ampia, più grande anche del cielo del deserto. Siamo noi che non conosciamo questa misura che dobbiamo ricordarci di loro almeno una volta l’anno. E sarebbe meglio lo facessimo più spesso.

 


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