Siamo lavoratori atipici e precari: che male abbiamo fatto?

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di Giovanni Ruotolo

Davvero è difficile non smettere di stupirsi, dolorosamente, dell’atteggiamento punitivo che tutti i governi, di ogni orientamento, stanno dimostrando per le lavoratrici e i lavoratori più deboli. Destra e sinistra sembrano condividere l’idea che la dimensione della precarietà, non solo stabilità del lavoro, ma tutto quello che ciò comporta, debba essere l’unico orizzonte del lavoro in Italia. Anche questa riforma punta a scardinare quello che è stato un elemento fondante del diritto di lavoro in Italia, ossia che la forma tipica di assunzione è quella a tempo indeterminato: infatti la riforma del governo Renzi punta a smantellare una misura presa a suo tempo da governo Prodi, ossia il concetto di causalità. Chi assumeva a tempo determinato doveva spiegare a cosa serve questo tipo di assunzione.  Con la riforma in corso di approvazione in Parlamento, un lavoratore può essere assunto a tempo determinato e può essere “prorogato” fino a cinque volte per un periodo complessivo massimo di 36 mesi. Nella versione originale del decreto Poletti, i rinnovi erano otto. 

Altro punto dolente: la funzione dell’apprendistato e la quota di assunzioni che dovrebbero seguire al termine di questo periodo di inserimento, tenendo conto che in una situazione normale le imprese non sono agenzie di formazione e non è affatto detto che un apprendistato svolto in un’impresa sia spendibile, in caso di mancata assunzione, in un’altra realtà. Fare venire meno la causalità da parte delle aziende, di fatto, impedisce ai lavoratori di tutelarsi e di avere uno strumento da usare in fase di vertenza davanti al giudice del lavoro. 

Queste norme rendono i lavoratori più deboli e favoriscono le imprese nella possibilità di tenere in condizione di sudditanza i lavoratori, che sono sotto ricatto con il rischio di non essere rinnovati o prorogati nel rapporto di lavoro se cercano di fare valere i loro diritti più elementari. Ovviamente nessuna esclusione a fare succedere più contratti diversi. In questo modo la stabilizzazione di un lavoratore che ottiene più proroghe e conferme diventa una prospettiva sempre più remota. Quello che non si capisce, o si capisce anche troppo è quanto davvero servisse un ulteriore iniezione di flessibilità in un sistema del lavoro in cui l’assioma “più flessibilità = più lavoro” è stato ormai dimostrato come falso e illusorio. Chi pensava che bastasse sgravare le aziende e i datori di lavoro da ogni responsabilità per avere più assunzioni è stato smentito nei numeri. 

Quindi è ormai chiaro che la flessibilità esasperata e l’attacco ai diritti non solo non creano buon lavoro, ma non creano nemmeno lavoro e basta. E un lavoro senza garanzie e diritti non è un buon lavoro, a meno che non si pensi che la massima aspirazione per sempre più persone sia quella di raggiungere il limite della sussistenza: il “sempre meglio che niente” è una corsa senza freni verso il niente, visto che nella crisi la guerra fra poveri diventa lo scenario consolidato l’asta di se stessi al ribasso. La questione del lavoro sempre meno atipico, però si gioca anche sui compensi riconosciuti a lavoratrici e lavoratori a cui si chiedere di vivere just in time, come se fossero pezzi di ricambio, pronti in ogni momento ad essere spediti dal magazzini alla fabbrica che li richiede: è per questo che la causalità dei contratti a termine è una condizione che deve essere necessariamente ripristinata. In più si deve mettere sul tavolo la questione di quanto questa flessibilità spinta deve costare al sistema delle imprese e al sistema paese. Il concetto base è che il lavoro precario e atipico deve costare molto di più di quello garantito. Questo servirebbe alle imprese che posso apprezzare meglio se e quanto lavoro esterno usare e alle lavoratrici e ai lavoratori per poter vivere degnamente anche di un lavoro discontinuo e non per loro scelta.

È anche per questo che battaglie come quella dell’equo compenso dovrebbero essere un patrimonio di tutto il movimento sindacale. La situazione di oggi ci mostrale potenzialità della legge sull’equo compenso e del principio che la informa e che deve valere per tutte le lavoratrici e i lavoratori. Perché il lavoro sarà anche flessibile, ma la vita e la dignità umana non lo sono.

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