L’Italia ostaggio del populismo

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Diceva Giorgio Gaber: “Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Il che sembra incredibile, soprattutto alla vigilia del voto di decadenza del Cavaliere da senatore, ma a ben guardare non lo è, per il semplice motivo che Berlusconi non è solo un politico: è un simbolo. E il berlusconismo non è solo una precisa collocazione politica: è un modo di essere. Ed è, duole doverlo ammettere, assai più trasversale di quanto non pensassimo un tempo, quando ancora ci illudevamo che a sinistra qualcuno avesse ancora la forza, l’intenzione, il coraggio, direi addirittura l’intraprendenza di riscoprire Berlinguer, di rispolverare Gramsci, di far propri gli inviti di una larga parte del mondo intellettuale alla resistenza culturale, morale e politica contro un declino che oramai appare inarrestabile.

Perché questo è diventato il dibattito pubblico nel triste anno che sta finalmente per concludersi: uno scontro tra diverse tinte di populismo, con interpreti per lo più mediocri, soluzioni inesistenti, proposte vacue, un’assenza di contenuti allarmante per non dire tragica e un totale disprezzo per la storia, per la memoria, per ciò che siamo stati e per ciò che dovremmo tornare ad essere che, se ci pensate, è anche la ragione per cui la classe politica dà l’impressione, nel suo insieme, di aver completamente smarrito un orizzonte, un ideale, una visione, un modello di società e di futuro da perseguire.

Naturalmente, se non vogliamo scadere anche noi nel populismo più abietto, abbiamo il dovere di sottolineare che c’è una bella differenza fra una destra che si scinde ma continua comunque ad andare d’amore e d’accordo, al netto di qualche schermaglia di facciata, un centro che si è praticamente liquefatto in meno di un anno, un Movimento 5 Stelle che finora non ha saputo fare di meglio che salire sul tetto della Camera e far squillare i cellulari in Aula e un centrosinistra, in particolare un Partito Democratico, che fra mille difficoltà, incomprensioni, tensioni e incertezze sta sostenendo l’unico governo possibile per scongiurare l’arrivo della Troika.

Il vero problema, semmai, è un altro: come lo sta sostenendo. Perché anche il PD, mi spiace doverlo ammettere, è da tempo in balia del populismo e dell’anti-politica dilagante, dei commenti acidi che spopolano sui social network, delle accuse ingiuste, e spesso violente e malvagie, che caratterizzano una certa stampa, delle sparate qualunquiste e demagogiche che paiono essere diventate la cifra culturale della maggior parte dei talk show: insomma, di un mondo finto, irreale, inesistente, che nulla ha a che vedere con la drammatica realtà quotidiana di chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, degli operai che vengono licenziati, delle fabbriche che chiudono, della disperazione sociale montante alla quale da anni non riusciamo a fornire risposte adeguate.

I social network, per dire, costituiscono un’invenzione bellissima; tuttavia, dovrebbero servire ad agevolare il contatto umano fra eletti ed elettori, non a rinchiudere gli uni e gli altri in uno schermo, non a produrre altre solitudini, non a fungere da cassa di risonanza di un malessere generale che non si risolve certo con un insulto sulla rete o con una scemenza urlata in un qualche salotto televisivo.Se davvero ci illudiamo che bastino i lustrini per ricreare quella che un tempo veniva chiamata la “connessione sentimentale” con il popolo, e più che mai con il nostro popolo, che è passato in pochi mesi dalla speranza del cambiamento allo sconforto di un altro governo con il centrodestra, allora non abbiamo capito nulla di cosa sta accadendo a livello globale, non solo europeo.

Perché questa crisi non è soltanto economica; anzi, è prettamente politica, morale, culturale; è la crisi di un mondo in cui le eccessive disuguaglianze soffocano ogni prospettiva di ripresa, in cui gli ultimi sono sempre più ultimi, in cui le multinazionali dettano legge agli stati e ai governi e scrivono le regole dell’economia basandole su quelle della finanza speculativa, in cui abbiamo smarrito il concetto stesso di dignità degli esseri umani e la bellezza del loro essere persone e non solo macchine, anime e non solo braccia, cervelli, cuori ed emozioni e non solo strumenti privi di sentimenti e condannati alla schiavitù di una vita senza prospettive.
Perché se davvero pensiamo di vincere le elezioni puntando sul nuovismo, sul giovanilismo a tutti i costi, sulle frasi fatte, gli slogan e su parole d’ordine vecchie di trent’anni e da sempre deleterie, allora ci stiamo condannando alla nostra più atroce sconfitta: quella di chi perde non solo le elezioni ma la propria ragione di esistere.
Perché se continuiamo ad elogiare il blairismo e le meravigliose ricette della Terza via, peraltro confutata dallo stesso Giddens, allora non abbiamo capito che la sinistra ha cominciato a perdere e perdersi proprio nel momento in cui ha rinunciato ad osservare il mondo con gli occhi dei più deboli, ha rinunciato alle proprie parole, alle proprie idee, ai propri valori e al proprio punto di vista sulla storia e sul domani per appiattirsi sulle ricette di un modello economico, il liberismo sfrenato e selvaggio, che ha degradato la politica e condotto l’umanità alla perdita dei diritti.
Perché se davvero crediamo che per fornire le risposte adeguate a questa devastante regressione dell’Occidente basti un comitato elettorale a favore di Tizio o di Caio, allora non ci siamo accorti che ciò di cui hanno maggiormente bisogno le persone oggi è proprio una comunità solidale nella quale trovare conforto alla propria solitudine, alla propria mancanza di punti di riferimento, alla propria incertezza, al proprio desiderio di tornare a sentirsi una collettività in cammino.

E, infine, perché se abbandoniamo il Paese nelle mani di chi vuole solo distruggere, di chi sa solamente gridare nelle piazze e raccontare barzellette, di chi non propone un’idea che sia una ma riesce comunque a intercettare il disincanto diffuso, allora condanniamo l’Italia alla morte civile, dimenticandoci dell’insegnamento che ci ha lasciato il giovane partigiano Giacomo Ulivi, fucilato ad appena diciannove anni: “È il tremendo, il più terribile risultato di un’opera di diseducazione ventennale, di diseducazione o di educazione negativa, che martellando per venti anni da ogni lato è riuscita ad inchiodare in molti di noi dei pregiudizi. Fondamentale quello della “sporcizia” della politica, che mi sembra sia stato ispirato per due vie. Tutti i giorni ci hanno detto che la politica è un lavoro di specialisti (…) Teoria e pratica concorsero a distoglierci e ad allontanarci da ogni attività politica. (…) Lasciate fare a chi può e deve; voi lavorate e credete, questo dicevano: e quello che facevano lo vediamo ora, che nella vita politica ci siamo stati scaraventati dagli eventi. (…) Credetemi, la cosa pubblica è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota. (…) Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, che ogni sua sciagura è sciagura nostra…per questo dobbiamo prepararci. Può anche bastare, sapete, che con calma cominciamo a guardare in noi, e ad esprimere desideri. Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere”.

Questo deve fare oggi la sinistra, questo deve fare oggi l’Italia: smetterla di aver paura e contrastare con il massimo vigore la tendenza al declino che si respira oramai dappertutto.
Se non saprà fare questo, se non avrà la forza e la dignità di fare questo, la sinistra non sarà più nulla e avrà vinto in via definitiva chi ha fatto di tutto per convincere milioni di persone che l’arbitrio del liberismo si chiami libertà e che la vera libertà, determinata da un pensiero autonomo e cosciente, appartenga al passato, superata da una falsa modernità che sa tanto di fascismo.


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