FORUM ARTICOLO21 – “Il futuro del giornalismo professionale è nella nostra capacità di coniugare libertà, solidarietà e regole”

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Non è soltanto l’editoria, intesa come sistema di aziende editoriali, ad essere in crisi. L’avvento dei new media ha reso visibili le crepe di una professione che ci ostiniamo a considerare immutabile e messo a nudo i limiti di un’organizzazione professionale pensata in tempi ormai remoti di quasi piena occupazione, in cui il pubblicista era il grande scrittore o lo scienziato che arricchiva le terze pagine dei quotidiani. Intanto, esiste un problema di non poco conto che riguarda l’informazione su scala mondiale: gli unici bilanci non in perdita sono quelli dell’on line, ma i ricavi sono troppo esigui per remunerare il costo del lavoro. Per essere credibile, l’informazione professionale deve essere adeguatamente remunerata, altrimenti rischia di perdere autorevolezza e credibilità perché diventa facilmente ricattabile. E’ un problema di democrazia, prima ancora che di sostentamento degli operatori dell’informazione, che siamo chiamati ad affrontare, soprattutto in questa fase di rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Confrontarsi con le difficoltà e le sfide del presente è un passaggio ineludibile non soltanto per sopravvivere, ma anche per dare una prospettiva alla professione.
Il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, allora, non può non diventare un passaggio cruciale per ragionare in termini di sistema. Ferma restando la necessità di garantire efficaci forme di tutela ai colleghi che lavorano in aziende in difficoltà, la partita deve essere giocata sul terreno del rilancio dell’occupazione. C’è una vasta platea di giornalisti precari, inquadrati come co.co.co., quando non pagati a pezzo, che può essere gradualmente ricondotta nell’alveo del contratto nazionale di lavoro giornalistico e della tutela previdenziale piena, quella assicurata dalla gestione principale dell’Inpgi, anche attraverso la riformulazione degli articoli 2, 12 e 36 del vigente Cnlg. Ineludibile sarà poi il confronto sulle nuove tecnologie, che impongono a tutta la categoria un grande salto di qualità dal punto di vista culturale. Pur restando ancorati ai capisaldi normativi del contratto, pensare che l’organizzazione del lavoro e l’approccio alla professione debbano rimanere uguali a quelli che si sono tramandati per decenni significa accettare passivamente la condanna, se non all’estinzione, sicuramente ad un ruolo sempre più marginale. C’è tutta una partita da giocare sul fronte dei nuovi profili professionali, ma anche della nuova organizzazione del lavoro. Fondamentale sarà la formazione.
Ragionare di tenuta del sistema significa anche spingere il confronto con gli editori ad un livello più alto. Serve un confronto serio con il governo sugli ammortizzatori sociali, a partire dalla legge 416 del 1981. E’ chiaro che quella legge, figlia di una stagione lontana, ha fatto il suo tempo. E’ una legge che va ripensata, tenendo conto di tutte le realtà, ma soprattutto rivedendo i parametri che consentono l’uscita anticipata dal mondo del lavoro. Nel 1981 immaginare il prepensionamento di un giornalista in presenza di 55 anni di età e di 15 di contributi, poi elevati a 58 e 18, era in perfetta coerenza con un sistema generale, non giornalistico, in cui c’era chi riusciva ad andare in pensione a 45-50 anni. Ma oggi 58 anni di età e 18 anni di contributi sono diventati il pretesto per moltiplicare gli stati di crisi, spesso soltanto presunti. Quale sostenibilità può avere un sistema previdenziale in cui c’è la corsa degli editori ad espellere gli over 58enni senza che le uscite siano bilanciate da nuovi ingressi di giornalisti? Quale sostenibilità può avere un sistema previdenziale nel quale l’80 per cento degli under 35enni non ha un rapporto di lavoro dipendente?
Tenuta del sistema e rilancio dell’occupazione significa combattere il precariato, estendendo le tutele e le garanzie a chi non ce le ha, creando le condizioni affinché la platea dei contrattualizzati si allarghi il più possibile e non perché avvenga il contrario. In questo senso, occorre però guardare alla realtà del mercato del lavoro. Quando parliamo di precariato parliamo di uno, nessuno e centomila. Cerchiamo, quindi, di intenderci su chi è il giornalista precario: non è certo chi sventola il tesserino, svolge, se la svolge, un’onesta attività pubblicistica, ma si proclama giornalista precario soltanto perché non riesce a trovare altri sbocchi occupazionali. Centodiecimila iscritti all’Ordine dei giornalisti a fronte di un mercato del lavoro che ne assorbe un quarto, compresi i collaboratori fissi, non significa che ci sono 80mila precari. Centodiecimila iscritti pongono un problema rilevante di domanda e offerta che finisce per ripercuotersi negativamente sui compensi e sulla contrattazione collettiva. I giornalisti contrattualizzati sono scesi a circa 17.500 unità, ma negli anni di maggiore espansione non hanno mai superato le 20mila unità. I non contrattualizzati, intendendo collaboratori e lavoratori autonomi, sono circa 22mila. Di tutti gli altri non sappiano nulla perché circa 50mila iscritti all’Ordine non hanno una posizione previdenziale. Qualche tempo fa, il presidente dell’Unione Camere Civili, fotografò così la situazione della professione forense: “Il numero abnorme di avvocati — disse — crea problemi alla giustizia. L’eccessiva proliferazione provoca una dequalificazione delle capacità tecnico-giuridiche e della deontologia. Il cittadino ha diritto di avere un professionista di alta preparazione e deontologicamente ineccepibile. Quindi, ci vuole una selezione molto più severa, che permetta solo ai migliori di accedere all’avvocatura”. Ritengo che sostituendo i termini “avvocati” e “avvocatura” con “giornalisti” e “giornalismo” si possa avere la dimensione esatta della nostra situazione. Abbiamo un problema di numeri totalmente avulsi dalla realtà, ma abbiamo anche problemi deontologici e di approccio alla notizia: la superficialità e la mancanza di preparazione portano spesso l’opinione pubblica a percepire la nostra categoria come una casta di privilegiati e la classe politica a concepire progetti di legge punitivi. Se può essere addirittura normale che la classe politica punti a imbavagliare la stampa — accade in tutto il mondo, come dimostrano peraltro le sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo — non è assolutamente normale che i giornalisti siano invisi all’opinione pubblica almeno quanto i politici. Non basta denunciare il fenomeno, bisogna anche interrogarsi sulle ragioni di tanta impopolarità. Dobbiamo fare un salto di qualità culturale e di onestà intellettuale. Esiste un problema di accesso alla professione, che è cosa ben diversa dalla libertà di esprimere il proprio pensiero, garantita dall’art. 21 della Costituzione. La legge professionale va profondamente cambiata. L’Ordine nazionale dei giornalisti, alla vigilia dell’apertura delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro, ha pensato bene di allargare ulteriormente la platea degli aspiranti professionisti, approvando una delibera che consentirà a tutti coloro che potranno dimostrare di svolgere da almeno tre anni l’attività giornalistica di sostenere l’esame professionale. Che si tratti di un regalo agli editori è fuor di dubbio. Lo dimostrano sia l’assenza di qualsiasi parametro reddituale minimo sia la discrezionalità che viene lasciata agli ordini regionali di valutare la congruità dei compensi, tenendo conto del mercato del lavoro nella singola regione. Questo significa affermare con forza la logica delle gabbie salariali. Averlo fatto alla vigilia del confronto per il rinnovo del contratto di lavoro, in perfetta coincidenza di tempi con chi ha invocato un contratto di discontinuità, significa aver fatto un assist a chi sostiene che la contrattazione collettiva nazionale non ha più ragione di essere. Significa però anche prendere in giro quei giovani colleghi che investono nella propria formazione e decidono di frequentare le scuole di giornalismo: loro pagano per diventare professionisti, altri raggiungeranno lo stesso obiettivo imboccando un’autostrada senza pagare alcun pedaggio. Non sono le scuole di giornalismo, il problema. Fino ad oggi c’è stato un uso distorto del concetto di “laureare l’esperienza”, che ha consentito di spalancare le porte dell’esame professionale a migliaia di persone. E’ possibile immaginare una riforma in cui — fermo restando l’articolo 21 della Costituzione — si stabilisca che al giornalismo professionale si accede soltanto attraverso un canale, necessariamente universitario ed economicamente sostenibile?
Il sindacato deve far fronte all’attacco alla contrattazione collettiva e al contratto nazionale di lavoro, figlio di una filosofia ispirata alla deregulation. La stessa filosofia che spinge gli editori a parlare di discontinuità e alcuni fra noi a sostenere che il problema del precariato è rappresentato dalle redazioni, ossia dal fatto che in questo Paese esistono ancora giornalisti garantiti da un contratto nazionale di lavoro. Questo risponde ad un disegno politico preciso: quello di indebolire e rendere ininfluente il contratto collettivo di lavoro, destrutturare il sindacato, a tutto vantaggio della contrattazione individuale che rende tutti più deboli di fronte agli editori.
Non occorre essere geni in matematica per capire che se viene meno il lavoro dipendente viene meno tutto:  l’Inpgi, la Casagit, il sistema di welfare che abbiamo faticosamente costruito. Non esiste fattore peggiore di debolezza sindacale della sovrabbondanza di forza lavoro rispetto a quella che le imprese riescono effettivamente a utilizzare. In questa situazione c’è il rischio di soffocare nella culla il tentativo di stabilire, come previsto dalla legge, un equo compenso su scala nazionale per quanti svolgono attività di lavoro autonomo. E’ una battaglia nobilissima, ma potrebbe essere annacquata dalla persistenza di un’organizzazione professionale totalmente sganciata dalla realtà del mercato del lavoro. Parlare di tenuta del sistema significa allora anche mettere sul tavolo il problema di un’organizzazione ordinistica che, così com’è, non serve a nessuno e giustifica le periodiche campagne abolizioniste. Necessario e urgente, allora, è mettere mano alla riforma dell’Ordine. Prendiamo esempio dalla legge professionale forense approvata alla fine del 2012: non si può mantenere l’iscrizione all’Ordine senza rispettare determinati requisiti reddituali e di contribuzione previdenziale.
Lo stesso discorso vale per il sindacato, chiamato a snellire i propri organismi elettivi e a potenziare strutture organizzative e servizi alla categoria, con particolare riferimento a chi non è tutelato dal contratto nazionale di lavoro. L’organizzazione federale della Fnsi non va soltanto salvaguardata, ma deve essere potenziata e valorizzata a livello territoriale con il coinvolgimento delle Associazioni regionali di Stampa. Il sindacato deve offrire servizi e assicurare formazione permanente a tutti i livelli e su tutto il territorio. Non può esistere un centro forte senza una periferia organizzata e determinata ad affrontare e risolvere i problemi grandi e piccoli della categoria attraverso sportelli di servizi, assistenza e consulenza continua. Le realtà territoriali, soprattutto quelle più piccole e distanti dal centro, non devono mai essere lasciate sole, ma vanno messe nelle condizioni di assicurare gli stessi livelli di assistenza delle altre.
Personalmente sono scettico sulla possibilità che un potere costituito, quale esso sia, trovi la forza e l’orgoglio di diventare potere costituente. Prevale l’istinto di conservazione. L’affossamento della riforma statutaria della Fnsi, avvenuto con voto segreto al Congresso di Bergamo nel 2011, né è stata la dimostrazione. Questo, però, non significa arrendersi. La tenuta del sistema passa per la profonda revisione del sistema. Il nostro essere, quello che abbiamo costruito in cento anni di storia attraverso il contratto, può continuare ad essere nella misura in cui saremo in grado di leggere, interpretare e coniugare in diritti e doveri, nuovi profili professionali e nuove qualifiche, tutele e garanzie, il divenire continuo della nostra professione. Ben venga, allora, il dibattito. Discutiamone, anche aspramente, mettendo da parte qualsiasi velleità correntizia vecchia o nuova che sia: l’ambito naturale di confronto e di sintesi non può che essere la Fnsi. Il futuro del giornalismo professionale è nella nostra capacità di coniugare libertà, solidarietà e regole. Non è facile, soprattutto in una fase come questa, in cui viene voglia di abbandonarsi alla paura e alla sconforto. Chi, come la mia generazione, ha davanti un orizzonte lavorativo relativamente lungo non può cedere alla paura né arrendersi. Questo è il momento di osare. Potremo sbagliare o essere sconfitti, ma dobbiamo osare.

*Presidente Assostampa Puglia


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