Impiegata Rai

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Dipendente Rai. Matricola 3X93F1. Inquadramento di livello 4, qualifica assistente al programma. Lavoro in questa azienda da dieci anni. Non è molto in confronto ad altri colleghi. Ma con il tempo, in modo lento, sotterraneo, una convinzione profonda si è fatta strada nella mia coscienza: meno fai meglio è per te.È stato un lungo apprendistato a cesellare questa verità ormai granitica. Adoperarsi, aspirare al meglio, alla qualità, è solo presupposto di una frustrazione che sarà tanto più tagliente e umiliante quanto più forte sarà stato l’entusiasmo investito. L’educazione aziendale conduce in modo inesorabile alla scelta di un unico metodo d’azione: la linea di minima resistenza.  Sembra esserci una volontà in tutto questo, un lucido disegno di appiattimento. Forse l’intento è quello della pace sociale. In fondo un’azienda così grande non può esimersi dal porsi obiettivi paragonabili a quelli del governo di un paese. E la Rai è sempre stata lo specchio dell’Italia. Per cui meno si alimenta l’aspirazione, meno si dovrà temere la cospirazione. Ebbene, non posso fare a meno di pensare che un’organizzazione di qualunque tipo che stimoli e premi nei propri membri una così forte tendenza all’apatia sia inesorabilmente votata all’autodistruzione. Il problema è che non è facile non fare nulla. Non perché le esigenze della produttività non lo permettano, ma perché non è facile costringersi all’autoannullamento creativo. È estremamente logorante e credo che porti a malattie mortali. Chi ci è riuscito oggi è visibilmente provato, nel corpo e nella mente. I corpi. Dicono molto sulle forme di vita. Si vedono in giro per le sedi della Rai personaggi dai corpi deformati da un ozio compresso, appassiti in una flaccidezza depressa. L’incedere lento e cupo di chi percorre un unico sentiero che non porta a nulla, ma lo percorrerà fino alla pensione. Sono gli impiegati Rai. Somigliano a quei poveri pony che forse si trovano ancora in qualche parco delle città europee. Quelli su cui si portano i bambini a fare il giro del parco, tanto per insegnare loro da subito quanto il sadismo sia un presupposto imprescindibile del divertimento. Solitamente vanno in fila indiana, con il muso legato alla coda dell’animale che hanno davanti (che si tratti di un altro pony o del padrone). Ci paragoniamo più spesso a muli che a pony. Ma nemmeno il vanto della fatica può nobilitare la nostra condizione, che non può neanche aspirare al rango di “aristocrazia operaia”. In effetti quei larghi deretani sudici e tarchiati dei pony descrivono meglio la meschina quotidianità del “non-voglio-problemi”.
Potrei dilungarmi a descrivere questa condizione nei suoi più svilenti dettagli: il rancore sedato dalla garanzia del posto fisso, le partite per aggiudicarsi i turni più vantaggiosi, i minuti di attesa davanti al tornello per raggiungere l’orario della maggiorazione serale…
Ma c’è, come in ogni cosa, un altro lato della medaglia anche qui. Secondo il Rapporto sul mercato del lavoro presentato dal Cnel il 18 settembre scorso, 5.2 milioni di lavoratori nella fascia tra 15 e 64 anni (uno su quattro) risultano sottoinquadrati nel lavoro rispetto al loro titolo di studio. E riecco la Rai specchio del Paese. È nel suo sottobosco che si muovono animali strani: archivisti dell’audioteca di via Asiago capaci di costruirsi apparecchi radio, assistenti laureate all’Orientale di Napoli che parlano arabo, sviluppatori e sistemisti usati come webmaster, diplomati in fotografia nelle migliori scuole usati come tecnici al banco audio… A ben vedere è una miniera  d’oro. Invece l’azienda spende milioni per esternalizzare ogni attività e assistiamo a un lento e inesorabile smantellamento di quelli che anche la dirigenza ha candidamente chiamato i “gioielli di famiglia”. Non ho le conoscenze necessarie per indicare la via per una  soluzione, ma posso solo fare degli auspici. È ora di comprendere che l’informazione non è il prodotto del lavoro di una sola persona; è frutto di un lavoro comune in cui i compiti e le competenze si miscelano compenetrandosi. E fintanto che i giornalisti continueranno a starsene blindati nella loro fortezza, non otterranno altro risultato che un cantuccio caldo in un mondo che crolla. È tempo di sgretolare (so di dire un’eresia) il muro invalicabile che separa l’alto dal basso, il mestiere nobile del giornalista dagli sguatteri di redazione. È ora di concepire il lavoro di chi fa informazione come un processo che include ognuna delle figure professionali e a ognuna di tali figure attribuire la giusta dignità. Fuori da questa azienda, altre organizzazioni hanno ridotto al minimo il numero di giornalisti e per fare informazione si servono di più figure: producer, tecnici, organizzatori. In Rai questo non è possibile per un semplice motivo: l’unica qualifica che offra speranze di crescita e uno stipendio dignitoso è quella del giornalista. Fuori da lì ci siamo noi: i delta minus di Aldous Huxley, condannati all’immobilità di carriera. Per ottenere questo sarebbe auspicabile che le sei e più sigle sindacali che rappresentano il personale non giornalistico della Rai trovassero terreni d’azione comune per affrontare il rinnovo del contratto collettivo. Ma su tutto aleggia il grigio disincanto a marchio Rai.


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