Francesco Guardi e il potere in disfacimento

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A volte attraverso le opere d’ arte, le mostre che riassumono la vita di un secolo, si possono capire i problemi di una società, le sue crisi, molto meglio di tanti saggi, di sintesi sommarie che dicono tutto e non dicono nulla. Quand’ ero a scuola, parlo delle vecchie elementari, una frase mi colpì: 476. Caduta dell’ Impero romano d’ Occidente. Cosa vuol dire caduta? Qualcuno ha buttato via le chiavi? Sono crollati i Palazzi? Si sono spente le fiamme che davano luce al buio della notte? Domande ingenue, legittime in un bambino.

Noi sappiamo bene che la fine di un impero, la fine di un potere è un fenomeno molto complesso che avviene al termine di una serie di trasformazioni che a volte durano anni, a volte secoli.

A Venezia, nelle Sale del Museo Correr, c’ è una splendida mostra dedicata a Francesco Guardi che va visitata, non solo per la precisione, l’ intelligenza con cui sono state scelte ed esposte le opere di questo grande pittore, ma anche perché questa mostra ci aiuta a capire come si trasforma, perde forza un potere. Problema antico, ma anche attualissimo.
A Londra, alla Nationa Gallery, c’ è un Ritratto di un gentiluomo di Tiziano che protende, quasi uscisse dal quadro, il gomito del braccio, quasi dicesse anche se sono solo dipinto non ti avvicinare se non vuoi essere distrutto. I grandi teleri del Cinquecento in realtà celebrano il potere di una Repubblica nel pieno vigore delle sue forze, della sua capacità di dominio. Anche la raffigurazione di storie sacre  concorrevano ad affermare quel potere, ciò che non poteva essere discusso.

Una volta, uno storico dell’ arte, mi ha detto: “In realtà, S. Marco è lo Stato. Ciò che vuole il potere è ciò che vuole l’ autorità del credo”. Ciò nonostante la Repubblica non fu mai un potere assoluto e monarchico, perché questo potere è sempre stato partecipato, il doge non veniva mai lasciato solo, anzi, all’ interno del Palazzo Ducale aveva solo un piccolo appartamento privato in modo che fosse chiaro che non era l’ onnipotente.
Nel Settecento, il Secolo di Guardi, La Repubblica di Venezia non è più una Repubblica serenissima, sente un potere che è giunto al declino e la pittura del secolo rappresenta bene la trasformazione e la prossima caduta di quello che nei secoli passati è stato  un grande potere, quasi un impero.

L’ opera di Canaletto (1697/1768) è molto significativa. Le sue opere non celebrano le vittorie, la potenza, la forza di uno Stato. I suoi quadri descrivono con precisione (la lezione dell’ illuminismo dirà Argan), quello che Venezia ha costruito negli anni del suo benessere, della sua potenza commerciale ed economica. E’ uno dei primi a illustrare, a vendere,  il “mito” Venezia. Non a caso il suo principale committente è uno straniero, un inglese. A Venezia non esistono quasi suoi quadri. Lui ormai lavorava per chi passando per Venezia voleva portarsene un pezzo nel proprio palazzo.

Quello che è interessante è che nei suoi quadri non troviamo più dei grandi protagonisti, la presenza umana è ridotta a figurine presenti in una cornice storica ancora forte e affascinante. Il declino di uno Stato si misura anche dal venir meno di figure forti, capaci di dominare le difficoltà, quelle che oggi definiremmo figure carismatiche, una molteplicità di protagonisti capaci di far uscire un popolo da una situazione di grave crisi. Nei suoi quadri la vita delle persone ha ancora una propria nobiltà, ma è una nobiltà burocratica, fatta di incontri minuti, di commerci e, probabilmente, di intrallazzi, non di grandi decisioni quali a volte le difficoltà della storia richiedono.

Nelle opere di Francesco Guardi (1713/1793) possiamo vedere la vita non di una grande potenza, ma la vita di una città attiva, che fatica, lavora, consuma le proprie energie a trasportar carichi, a premere sul remo. Spesso le figure che sostano in Piazza o in altre parti della città sembrano perdere forma, più immagini di persone, macchie di colore dai contorni non ben delineati, a volte figure inquietanti. Ormai la vita non è più fuori della città (tipico di una grande potenza), ma all’ interno della città. Anche le immagini religiose sembrano perdere sostanza, più una raffigurazione che l’ affermazione di una verità.

Negli stessi anni Tiepolo (1696/1770). Riduce la rappresentazione a scenografia. Una volta di fronte a una sua opera, Emilio Vedova mi disse, “Se guardi questo affresco capisci che la Repubblica è morta”.  Gli chiesi perché dicesse questo. Rispose: “non vedi che se infili un chiodo in quel rosso non viene fuori sangue. Non c’ è più un corpo, c’ è solo una superficie, non la vita ma una scena”.
Chissà cosa succederebbe se infilassimo un chiodo nelle opere dei poteri dei nostri giorni? Forse verrebbe fuori ancora la vita o, forse, il nulla, o forse, chissà,  del veleno. Certamente verrebbero fuori molti interrogativi.


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