L’atteso spettacolo\soliloquio di Robert Lepage inaugura, al Teatro Argentina, la rassegna Roma Europa Festival

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Una solitudine immanente ma che ha remote, profonde radici: irremovibile, calma, senza istanze di consolazione. Il passato non è terra straniera, ma asettica, inamovibile, ‘benignamente’ statica (come le piccole cose di dubbio gusto): anche  nei risvolti della memoria che oggi ispirerebbero tenerezza, complicità, minimo rimpianto di inezie infantili.         Robert Lepage non ricorda con rabbia, e nemmeno con commozione: tutt’ al più con indulgenza, finta seriosità,  blanda  ironia (dunque con metodico distacco), come a ricordarci che ‘volere bene’ alle proprie scaturigini insegna a ‘volere bene alla vita di adesso’, a quella che hai contribuito (cosciente o meno) a cucirti addosso:  da abito firmato o camicia di forza, da vestaglia da camera o jeans e maglietta, la differenza è irrilevante. Viceversa, resterai un alieno a te stesso e a chi ti sta attorno.

Prezioso, compassato, essenziale sino alla ritrosia, “887”, spettacolo inaugurale (al Teatro Argentina) dell’annuale rassegna (a più discipline artistiche) “Roma Europa” permette di ritrovare, intatto e sferzante (nel suo aplomb e sobrietà di stile) quello stesso Lapage che  catturava  critica e spettatori, un quarto di secolo fa (al Piccolo di Milano), con la “Trilogia dei dragoni” (edizione integrale di 5 ore) che era epica, riconoscenza, saga generazionale sulla emigrazione asiatica nelle stesse terre del Canada, ove l’autore è nato e che porta nel cuore, nel suo ‘programmato ’ girovagare da nomade per ogni continente, alla ricerca di narrazioni minimali o sontuose. Le quali, e  senza  vie di mezzo,  possano tradursi, in base alle disponibilità produttive, in autentici kolossal di una teatralità tecnologicamente avanzata  (ma ‘il mezzo’ digitalizzato non ha mai il sopravvento sul corpus poetico dell’evocazione); ovvero in ‘soliloqui laico-religioosi’, per voce mimetico\narrante, in cui la gestualità dell’interprete (lo stesso Lepage) spicca per pudore, auto sottrazione, pacatezza di transito tra i registri drammatici più svariati- dal dolore allo scherno, dal caustico al compenetrato.

Di qui, piccoli capolavori come “Vinci” , “Elsinore” , “Gli aghi e l’oppio” (le sue ‘pene d’amor perdute’, deferente alla lezione di Cocteau) ed altri allestimenti ad alto costo e ampia (lunga) spazialità ‘nel tempo’ come “I sette bracci del fiume Iota”, che riallacciava i fili di precedenti esperienze  per commemorare il 50° anniversario della strage di Hiroshima “in una organizzazione complessa di nessi estetici e visivi: cortocircuito continuo di storie e geografie”- annotava Roberto Canziani, cui lo scacchiere della Storia e la dinamica dei Poteri non daranno mai requie.

Si approda infine ad un’ideale oasi di pace (in salubre penombra) in questo “887” già segnalatosi all’ultimo Festival di Nantes, in cui   Lepage  fluttua su un’autospoliazione  di  aneddoti e fiotti di memoria:  catalizzati filigranati ed infine distillati in un’ambientazione   euclidea,  multimediale, in cui cinema, animazione, tridimensionalità (di minuscole  antropologie, sipariretti animati) affollano questo  negozio da rigattiere, da ‘trovarobato di quel che fu’, di cui l’autore-regista è, al contempo, demiurgo e servo di scena.  E intanto, perché un titolo numerico? Perché esso sintetizza nel modo più ‘sterilizzato ed anonimo’ ( il numero civico di Rue Murray) quel micro universo di educazione (ed insofferenza) sentimentale in cui  il precoce, introverso ragazzo  del  Quebec  visse da bambino- come a  simboleggiare “un’incursione magica e variegata nelle  memorie familiari”, egemonizzate  da un padre volitivo  tassista, due sorelle bellocce  e rissose,  una nonna invalida e pervasiva, una madre normalmente frustrata (tutti  assemblati in una casa che “sembrava grande, ma noi non ci entravamo”)

Non solo:  l’autore  -autopercorrendosi- compie  un poetico testa\coda tra memoria individuale e memoria collettiva, poiché (senza che “887” esasperi la sua valenza tangenzialmente politica) gli anni della prima giovinezza   corrispondono con la  ribellione  del Québec francofono contro quello di tradizione  anglofona, annoverata quale “révolution tranquille” che condusse all’autonomia di quella provincia del Nord America.

«Sono la menzogna che dice sempre la verità», avverte Lepage, citando i maestri dell’esistenzialismo francese: non tanto per rendere più enigmatico e seducente questo suo formidabile  spaccato di teatralità  minimale (in scena, da solo, per quasi due ore, a gestire un’edicola tecnologica che, di volta in volta, a forma di filmico fotogramma, si trasforma in palazzina, schermo televisivo, evoluto computer, naturalistico monolocale borghese), la cui essenza riflessiva è, a me pare, la ‘solidale solitudine’  cui l’essere umano, dotato di discernimento, sensibilità, senso critico e sesto senso, “ è costretto a mutare, adattarsi, cambiare pelle e attitudini”  senza-per questo- scadere nel tautologico, nel lamentevole, nel rito autoreferenziale di chi ha appena traslocato (anima, corpo, voci di dentro) in una specie di torre d’avorio: più malferma di una castello di carte, di fumo o  di sabbia.

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“887”

Ideazione, messinscena e interpretazione Robert Lepage.  Direzione artistica e ideazione Steve Blanchet   Assistenza alla regia Adèle Saint-Amand  Musica originale e idea sonora Jean-Sébastien Côté  Disegno luci Laurent Routhier   Idea visiva Félix Fradet-Faguy  Produzione “Ex Machina”.  Adattamento del testo per la versione italiana Elisa Lombard. Roma, Teatro Argentina- Roma Europa Festival (dal 23 al 28 ottobre 2015)


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