“Il giornalista non è quello che ha la verità, ma quello che prova a cercarla”. Intervista a Fausto Pellegrini

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Continua il viaggio alla scoperta del Premio Morrione e incontriamo Fausto Pellegrini, giornalista di Rainews24, uno dei tre tutor di questa quarta edizione. Quattro domande e quattro risposte per conoscere la sua idea di giornalismo e le motivazioni che lo hanno spinto a ricoprire questo importante ruolo formativo per i giovani autori che verranno selezionati.

Perché ha accettato il ruolo di tutor del Premio Morrione? Che cosa significa per lei?
Tra tutte le ragioni belle e nobili che stanno dietro a questo premio, per prima cosa ho accettato per … Roberto Morrione. Che per me non è stato solo un direttore (indimenticabile) ma, soprattutto, un compagno di viaggio, un amico vero, un fratello maggiore che mi dato la bussola per orientarmi in questa professione bella, ma anche  tragica, affascinante, ma anche subdola. Quel servizio pubblico che racconto con entusiasmo in ogni occasione, non è altro che quello che ho sperimentato quotidianamente lavorando con lui per tanti anni. Quel giornalismo che non lascia le notizie orfane, che spiega e racconta, anzi che spiegando racconta. Un valore da trasmettere ad ogni costo, soprattutto in questa età di mezzo del giornalismo, stretto tra sensazionalismo e autismo degli operatori dell’informazione (più che mai autoreferenziali).

Cosa si aspetta dal giovane under 31 che seguirà nella realizzazione della video-inchiesta?
Mi aspetto soprattutto la curiosità del racconto, la voglia di non dare nulla per scontato. Perchè il giornalista non è quello che ha la verità, ma quello che prova a cercarla, con metodo e determinazione. Mi aspetto che prenda forma quella informazione dei poveri cristi che teorizzava (e mise in pratica) Danilo Dolci.  Diventi patrimonio collettivo delle giovani generazioni. Mi aspetto  che l’inchiesta sociale (che va alla ricerca delle cause, non insegue la patologia, ma la anticipa, raccontando la quotidianità) diventi il loro punto di riferimento. Tutto questo significa ridare forza alle piccole inchieste non trasferibili, negli anni ’70 realizzate in collaborazione tra professionisti dell’informazione ed altri soggetti sociali. Significa fare un po’ come il dottore: che per capire la malittia deve conoscere come stai quando malato non sei…

Quando ha capito che la sua professione sarebbe stata quella giornalistica?
Non lo so. Mi è sempre piaciuto raccontar storie dal punto di vista dei “senza potere”. Non credo nel giornalista obiettivo, credo nel giornalismo onesto, che sceglie il punto di vista da cui guardare un avvenimento senza pregiudizi e fuori dalle logiche del potere. E il punto di vista che si sceglie non è neutro. Guardare un bombardamento dall’aereo che sgancia le bombe o dalla casa che sta per essere colpita cambia il racconto. Credo che un giornalismo onesto sia un modo concreto per dare attuazione all’articolo 3 della Costituzione che parla della libertà di tutti e  che dovrebbe essere il nostro punto di riferimento, ancor più dell’art 21 (che parla solo della nostra libertà).

Cosa consiglierebbe a chi sta in questo momento scrivendo il progetto di inchiesta per il nuovo bando?
Quello che ho detto fino ad ora. Essere testimoni e non militanti. Pensare ad un progetto che costringa a camminare (sempre “in direzione ostinata e contraria”, come direbbe De André), senza scegliere  la facile via dell’autostrada ma preferendo  percorrere le vie consolari, complicate, piene di difficoltà, ma più adatte agli incontri. E soprattuto vie che alla fine non chiedano il pagamento di un pedaggio. Che preferiscano  la competenza alla competizione, e non considerino sinonimi fretta e velocità. Soprattuto essere sempre disposti a guardare con occhi nuovi gli stessi luoghi. Facendosi insomma carico della complessità del mondo, per provare a spiegarlo.


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