L’opera taiwanese è una storia di rinascita e ricostruzione che mescola abilmente toni drammatici e una contagiosa vitalità. Arriverà nelle sale italiane a Natale
La Festa del Cinema di Roma 2025 ha premiato come Miglior Film – Concorso Progressive Cinema – l’opera taiwanese Left-Handed Girl (La mia famiglia a Taipei), diretto da Shih-Ching Tsou. Il film, un vibrante affresco familiare, è stato lodato per la sua capacità di mescolare toni drammatici con una contagiosa vitalità, offrendo una potente storia di rinascita e ricostruzione.
La pellicola racconta la storia di Shu-Fen, una madre single che arriva a Taipei con le sue due figlie, di cui una poco più che adolescente, I-Ann, e un’altra più piccola, I-Jing, per iniziare una nuova vita che la sottragga all’indigenza, prendendo in affitto un banco del cibo di strada in un mercato notturno locale, che, purtuttavia, non le consentirà di affrancarsi dalla sua condizione. Una situazione questa aggravata dai difficili rapporti che Shu-Fen ha con la primogenita così come con la sua famiglia di origine, con la quale ha continui scontri verbali e segreti sottaciuti.
Shu-Fen è sola con la sua solitudine ed i giorni si susseguono, fronteggiando le più diverse avversità, l’uno uguale all’altro.
L’unica ancora affettiva per Shu-Fen è rappresentata da I-Jing, una meravigliosa creatura che è al centro della scena; la vera protagonista del film. È attraverso i suoi occhi che ci viene restituita una Taipei caleidoscopica, luminosa e caotica, ma anche piena di contrasti e malinconia.
Ma I-Jing, è mancina: la “mano del diavolo”, e questa circostanza alimenta un’avversione ancora diffusa a quelle latitudini, soprattutto per le persone di una certa età. Un tabù culturale, antropologico, dove la mano sinistra è storicamente associata a connotazioni negative. Al punto tale che il nonno materno cercherà in tutti i modi di contrastarne l’utilizzo, costringendola ad usare la destra, creando un conflitto intimo e un filtro ottico attraverso cui la regista osserva la società.
Un film bellissimo e luminoso, la cui capacità nel bilanciare la disillusione urbana con un incalzante senso di speranza è affidato proprio a I-Jing e al suo “difetto” che diviene lo strumento attraverso cui vengono definiti i rapporti sociali. In ciò supportata da una incredibile interpretazione di una giovanissima attrice, Nina Ye.
La bambina incarna con una sincerità disarmante e una naturalezza straripante il suo ruolo, diventando il punto di vista privilegiato dello spettatore sulla caotica ma tenera realtà di Taipei. La capacità registica di navigare tra il caos familiare e l’ingenuità infantile, utilizzando l’essere mancina come un atto di ribellione dolce e inevitabile, permette al film di mantenere un tono spensierato e libero, anche quando affronta temi complessi come la sopravvivenza e i debiti familiari.
L’opera di Shih-Ching Tsou (prodotta e scritta anche in collaborazione con il premio Oscar Sean Baker) è stata definita un “melodramma urbano tenero e spietato”. La sceneggiatura lascia aperto uno spiraglio costante all’ironia, una scelta stilistica cruciale che impedisce alla storia di soccombere ai toni cupi del dramma sociale. Inoltre, con il suo ritmo incalzante celebra proprio il momento della ricostruzione. La rinascita non è solo economica o geografica, ma è soprattutto emotiva: la famiglia è costretta a rompere i silenzi e a ridefinire il proprio legame, accettando le reciproche fragilità. Il risultato è un’opera che, pur parlando di lotta per la dignità in una società complessa, celebra la forza dei legami familiari femminili e l’orgoglio di un cinema autentico e profondamente umano.
