Giornalismo sotto attacco in Italia

Riaprire il cantiere costituzionale. Il nuovo saggio di Gaetano Azzariti

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Nel panorama attuale degli studi costituzionalistici, segnato da un’accentuata tensione tra principi normativi e realtà politico-sociali, il nuovo volume di Gaetano Azzariti, Dov’è finito il pensiero critico? Dalla rivoluzione promessa all’utopia concreta (manifestolibri), si inserisce come intervento teorico di particolare rilevanza. Il libro trae origine da una constatazione ormai diffusa: la distanza crescente fra la promessa emancipativa della Costituzione italiana e la sua effettiva implementazione. Pur essendo frequentemente celebrata come “la Costituzione più bella del mondo”, l’opera fondativa della Repubblica è stata nel tempo sottoposta a processi di erosione e svuotamento, spesso attraverso pratiche politiche e interpretazioni istituzionali che ne hanno indebolito la forza normativa. Azzariti interroga questa traiettoria di declino muovendo da una domanda volutamente diretta: “Che cosa non ha funzionato?”

La riflessione dell’autore si colloca nel solco di una ricostruzione genealogica del pensiero critico italiano del secondo Novecento: dall’operaismo al femminismo della differenza, sino alla stagione dell’“uso alternativo del diritto”. Queste esperienze — eterogenee ma accomunate dall’obiettivo di ripensare il rapporto fra diritto, potere e soggettività — hanno svolto un ruolo importante nel decostruire le forme consolidate di dominio. Tuttavia, Azzariti sostiene che tali prospettive, pur nella loro radicalità, abbiano mancato il passaggio decisivo verso una strutturazione istituzionale delle proprie istanze. Si sarebbe così prodotto un progressivo scollamento tra critica e costruzione: mentre il pensiero dominante si adattava agli imperativi neoliberali, le tradizioni critiche restavano confinate a una funzione prevalentemente oppositiva. Ne deriverebbe un duplice effetto: da un lato, un indebolimento dei diritti sociali e delle garanzie costituzionali, a fronte della crescente pervasività del mercato; dall’altro, una sorta di “auto-marginalizzazione” delle forze critiche, incapaci di incidere sulle forme dell’ordinamento e sulle sue dinamiche di legittimazione.

L’autore sintetizza così questa traiettoria: la critica radicale, pur preziosa, non è riuscita a farsi progetto istituzionale. La crisi del pensiero critico ha quindi indotto il Paese a una subalternità culturale.

Secondo Azzariti, la mancata traduzione delle istanze critiche in architetture istituzionali ha infatti compromesso la possibilità di realizzare quella che definisce una “democrazia strutturata”: un modello capace di attuare i principi di giustizia sociale, eguaglianza sostanziale e limitazione del potere economico, inscritti nel programma costituzionale del 1947. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti, l’attuale condizione di “democrazia disgregata”, espressione con cui l’autore designa un sistema politico segnato da crescente concentrazione del potere economico, costante indebolimento dei corpi intermedi e della rappresentanza, precarizzazione sociale e perdita di coesione istituzionale.

Il modello neoliberale, più che sostituirsi alla Costituzione, ha agito come forma pervasiva di riorientamento delle sue finalità, trasformando i diritti in mere dichiarazioni programmatiche e svuotando la capacità dello Stato di farsi garante dei principi sostanziali di eguaglianza.

Di qui è interessante trarne anche una lettura di genere: il riferimento al femminismo della differenza rappresenta un nodo fondamentale per comprendere la portata della diagnosi di Azzariti. I movimenti femministi, infatti, hanno prodotto uno dei più potenti processi di messa in discussione del modello neutro dell’ordinamento giuridico, mostrando come la cittadinanza repubblicana fosse costruita su una figura implicita — e di fatto maschile — di soggetto politico.

Eppure, osserva l’autore, la grande spinta trasformativa del pensiero femminista non è riuscita a consolidarsi nella dimensione istituzionale. Il mancato radicamento istituzionale di queste pratiche discorsive ha prodotto una situazione paradossale: molte conquiste sono rimaste “asimmetriche”, affidate a normative deboli o a politiche intermittenti, senza reali strumenti di enforcement e, quindi, costantemente a rischio retrocessione.

La mancata realizzazione dei diritti delle donne è infatti certamente un indicatore sensibile dell’inadempienza costituzionale complessiva; l’eguaglianza formale sancita dalla Costituzione, senza politiche strutturali, non si traduce in eguaglianza sostanziale. Così lavoro di cura, violenza di genere, partecipazione politica delle donne restano ambiti in cui l’assenza di una “democrazia strutturata” produce gli effetti più evidenti e, in questo senso, la lettura di genere non è un elemento aggiuntivo, bensì un banco di prova dell’intero progetto costituzionale.

Uno degli aspetti più insistiti del volume è la critica all’uso retorico della Costituzione come simbolo identitario. Per Azzariti, tale retorica non solo è politicamente inefficace, ma rischia di oscurare la necessità di una ricostruzione reale delle condizioni di efficacia della normatività costituzionale. Come scrive l’autore, «non si tratta di celebrare la Costituzione, ma di riattivarne la promessa». Ciò implica una rinnovata comprensione del limite del potere, non solo nella dimensione istituzionale, ma anche in quella economico-strutturale, così come un investimento nelle politiche pubbliche come strumenti di attuazione dei diritti e il recupero del nesso tra soggettività politica e mediazione istituzionale, oggi indebolito.

Di qui la necessità di una nuova emancipazione, verso un progetto finalmente istituzionale del pensiero critico. Il contributo più originale del libro consiste infatti nella proposta di un ripensamento complessivo del rapporto tra pensiero critico e istituzioni, in cui Azzariti invita a riconoscere che la dimensione istituzionale non è il luogo della compromissione, ma il terreno necessario su cui si gioca la possibilità dell’emancipazione.

Riaprire il “cantiere costituzionale” significa allora recuperare l’idea di una Costituzione come progetto, non come reliquia; come programma politico, non come icona; come strumento di limitazione dei poteri selvaggi del presente e di promozione di nuove forme di solidarietà, giustizia ed eguaglianza.

Il volume, pur muovendosi con rigore teorico, suggerisce anche una direzione normativa: la necessità di una nuova emancipazione, che integri radicalità critica e capacità costituente, istanze sociali e progettualità istituzionale. Un’ emancipazione che — proprio come indica la letteratura  femminista — deve essere materiale, situata e capace di trasformare in profondità le condizioni di possibilità della cittadinanza democratica.


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