Ehi, tu! Sì, proprio tu! Mancano due giorni al Natale. Hai fatto l’albero? Il presepe? Il menu è pronto? Le adesioni ai tuoi inviti sono arrivate? Lo so che stai sbuffando, perché in fondo non è che ti vada molto, sari costretto a sorridere, abbozzare, intervenire, smorzare, ma s’ha da fa’… Lo ha prescritto qualcuno, anche se non ricordi chi e soprattutto ne hai dimenticato il senso.
Eh sì, perché se il senso fosse ancora dentro di noi, boicotteremmo quel pranzo e faremmo altro. O lo faremmo in modo diverso. Apriremmo lo sguardo su ciò che accade al di là delle nostre calde e comode case. Inonderemmo i social, ancora una volta, di notizie su chi – credente e non – queste giornate si prepara a viverle alla mercé delle divinità del vento, della pioggia e della neve.
“Eh, ma mica la vita si può bloccare perché qualcuno non sta bene!”.
Già la sento questa frase che si sta formulando nella tua testa o che qualcuno scriverà o dirà “perché siamo donne, madri, cristiane” e dobbiamo celebrare questo evento così importante con i nostri figli (che al contrario di altri possono vivere al sicuro) .
Va bene, è vero, non dobbiamo farci sopraffare dal male, dalla fatica, dal dolore e dobbiamo far emergere il sorriso, la leggerezza, la gioia che è dentro di noi (perché è dentro di noi, vero?), la consapevolezza della fortuna (perché, se siamo nati qui e ora, è merito del caso o di altre nostre scelte di vite precedenti, per chi crede nella trasmigrazione delle anime) di cui godiamo per il fatto di essere ‘qui e ora’ e non lì, in uno dei 100 conflitti in corso nel mondo.
E allora perché abbiamo manifestato? Perché siamo scesi in piazza?
Forse perché non erano giorni di festa già occupati da altro?
O forse perché va bene protestare finché la protesta si scontra con un tavolo imbandito, un puntino rosso sul calendario, l’abbraccio spesso ipocrita di chi non vediamo da un anno?
Secondo i dati dell’Uppsala Conflict Data Program dei 100 conflitti del 2025 alcuni sono internazionali, altri interni ma con implicazioni globali. I Paesi coinvolti sono Ucraina, Yemen, Siria, Etiopia, Somalia, Sudan, Myanmar, Afghanistan, Haiti, Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Mali, Niger e Sudan del Sud… Molti di questi conflitti sono classificati come guerre civili o insurrezioni armate, spesso alimentate da crisi economiche, violazioni dei diritti umani e disuguaglianze storiche.
Sono 122 milioni le persone costrette a fuggire dalle proprie case nel mondo, soprattutto a causa di conflitti (fonte Unhcr – giugno 2025): ad aprile 2024 erano 120 milioni. Di queste 73,5 milioni sono sfollati all’interno del proprio paese a causa di un conflitto, un numero in aumento di 6,3 milioni di persone. La crisi maggiore si registra in Sudan, con 14,3 milioni di sfollati interni, seguito da Siria, Afghanistan e Ucraina (dove nel 2022 erano 14 milioni gli sfollati). Il 67% dei rifugiati rimane nei paesi limitrofi, mentre il 73% è ospitato da paesi a medio e basso reddito. Questi ultimi in particolare, pur rappresentando lo 0,6% del pil globale, ospitano il 19% dei rifugiati.
E poi c’è Gaza. Il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 ottobre (a due anni dall’inizio del genocidio), dopo l’ok al piano di pace Usa. Da allora Hamas e Israele si sono più volte accusati a vicenda di averlo violato e più di 400 persone sono morte: morte di freddo o uccise.
Le immagini che arrivano da Gaza non sono meno drammatiche di qualche mese fa. Non ci sono bombardamenti a tappeto – lo ha confermato anche padre Romanelli, parroco della Chiesa della Sacra Famiglia, ospite domenica a “Che Tempo Che Fa” – ma c’è freddo, pioggia, manca l’elettricità, i bambini stanno morendo per assideramento e per le condizioni nelle quali sono costretti a vivere.
Il 90% della popolazione (oltre 2 milioni di persone) è sfollata.
La metà della popolazione (il 46%) non dispone di servizi igienici di base (ONU, maggio 2025).
A Gaza 1 gravidanza su 3 è “ad alto rischio” a causa della carenza di medicinali essenziali, malnutrizione e accesso ridotto alle cure (ONU, giugno 2025).
Circa il 33 % dei neonati sono prematuri, sottopeso o necessitano di cure intensive (ONU, 1° semestre 2025).
Gaza registra oggi il tasso più alto di amputazioni infantili pro capite al mondo.
Un macabro record che non è soltanto un dato statistico, ma un segno devastante per il futuro delle nuove generazioni.
Eppure non se ne parla. Gaza è uscita da podio delle notizie principali. Dopo esserci entrata a fatica grazie alle proteste, al boicottaggio, ai flashmob, alle denunce, alla scelta anche da parte dei giornalisti di metterci corpi e facce.
Ma era proprio questo che si voleva a livello mondiale. Il silenzio. Anche grazie ad una tregua che è suonata proprio funzionale all’ammutolimento delle coscienze: obiettivo raggiunto, la pace è stata fatta, ora possiamo rilassarci!
C’era troppa attenzione, c’erano troppe barche in mare, troppa gente nelle piazze di tutto il mondo. Bisognava proprio firmare una tregua per porre fine a tutto questo. Una bella firma, per una fase uno e poi una fase due calate dall’alto. Ancora una volta.
Ecco proprio per dare avvio la fase due, Usa, Egitto, Qatar e Turchia si sono incontrati ieri a Miami per “far avanzare i preparativi” della seconda fase del piano di de-escalation della guerra a Gaza, dopo la tregua tra Israele e Hamas scattata a ottobre: lo si apprende da una nota congiunta diffusa su X dall’inviato speciale per il Medio Oriente di Washington, Steve Witkoff.
Le parti sottolineano la necessità di “istituire un organo di governo a Gaza” sotto il controllo di una “autorità locale unificata”, preceduto da una “amministrazione transitoria” costituita da un “board of peace” per la gestione del settore civile, della sicurezza e della ricostruzione, come riporta Skytg24.
Una fase che dovrebbe iniziare prima di Natale, cioè entro i prossimi due giorni.
E mentre si attende, Medici Senza Frontiere denuncia che le nuove misure introdotte da Israele per la registrazione delle organizzazioni non governative internazionali rischiano di privare centinaia di migliaia di persone a Gaza di cure mediche salvavita: le nuove disposizioni potrebbero comportare la revoca della registrazione delle ong internazionali a partire dal 1 gennaio; la mancata registrazione impedirebbe alle organizzazioni, tra cui Msf, di fornire servizi essenziali alla popolazione di Gaza e della Cisgiordania (Fonte Skytg24).
Di fronte a tutto questo, direte, noi cosa possiamo fare?
Sento già la domanda di chi, ponendola, tenta l’autoassoluzione.
Noi dobbiamo continuare: parliamone, non normalizziamo il riarmo europeo, non umanizziamolo, non facciamolo passare come necessario, ripetiamo che “L’Italia ripudia la guerra”, doniamo la parola “pace” ai nostri bambini, e impacchettiamo delle bandiere con l’arcobaleno, coloriamo i nostri alberi dei colori della primavera, scegliamo di fare un Natale consapevole, al fianco di chi è solo e soffre, boicottiamo i prodotti implicati nelle guerre.
E poi scriviamo, facciamo post, condividiamo storie sui social, spegniamo le luci degli alberi di Natale e accendiamo altro. Facciamo come quel paese siciliano, Castel di Lucio, che ha preferito risparmiare sugli addobbi e mandare aiuti nella Striscia. Scegliamo chi voler aiutare.
E domandiamoci perché festeggiate il Natale: per affermare la nostra superiorità? Per far vedere che bella tovaglia abbiamo? Per sfoggiare la cristalleria? Per fare dei calendari dell’avvento che regalano il superfluo, per lo sfarzo e l’abbondanza materiale o per la ricchezza interiore?
Alziamoci da quel tavolo e scendiamo in piazza. Scegliamo da che parte stare.
Non c’è bisogno di andare molto lontano: forse nel vostro paese c’è una mensa dei poveri, o c’è qualcuno che rischia di restare solo, o c’è qualche rifugiato da aiutare, o ci sono dei bambini malati da far giocare o c’è una vecchietta che ha molto freddo o un ragazzo che chiede solo un panino.
Il volto di Chi celebriamo il 25 dicembre è accanto a voi in migliaia di altri volti.
