Giornalismo sotto attacco in Italia

“Le città di pianura”, di Francesco Sossai, Ita-Ger., 2025. Con Sergio Romano, Pierpaolo Capovilla, Filippo Sacchi

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Un film che sorprende per la sua capacità di raccontare la difficoltà di essere “liberi”, oggi, o forse sempre. Due amici ultracinquantenni, Carlobianchi e Doriano, si muovono per Venezia e dintorni, vivendo di espedienti e notti senza fine. Diversamente da quanto è stato scritto, non c’entrano assolutamente niente “I vitelloni” di Fellini o gli “Amici miei” di Germi-Monicelli, nè tantomeno “Il sorpasso” di Risi. Già dalla fotografia sgranata e dai colori usati, per non dire, soprattutto, dei contenuti, il film di Sossai è figlio del miglior Kaurismaki, per quel sorriso amaro che strappa allo spettatore, per quell’essere un road movie che gira a vuoto, con la sola soddisfazione di far “vivere” i due protagonisti, diversamente destinati all’oblio esistenziale. L’alcolismo, la ricerca di quei quattro soldi per sbarcare il lunario, i corpi che diventano racconto dentro un paesaggio in rapido cambiamento, l’alienazione di chi vive in un mondo che accoglie soltanto chi si è uniformato al grigiore quotidiano, fanno di questa opera una vera rivelazione. Quelle che racconta il regista veneto sono emozioni trattenute, veicolate da sguardi potenti che lasciano trapelare vite distrutte, che non si rassegnano al capolinea a cui sono già arrivate da tempo.

L’ennesima occasione di ricominciare sarà per loro l’incontro occasionale con un giovane e timido napoletano, Giulio, studente di architettura a Venezia. E non sarà la solita storia di iniziazione alla vita ma il racconto di una condivisione di sconfitte senza riscatto, vissute nell’allegria di chi sa di non avere più vie di uscita. Nel prefinale, il giovane studente, di ritorno sul treno alla sua vita di sempre, avrà già acquisito memoria di un incontro che porterà dentro per sempre, come un sogno che alla fine ti lascia pieno di tante cose che rimarranno solo sogno. Salire su quel treno ha significato per lui, forse anche inevitabilmente, rimettersi ai nastri di partenza di quella vita “normale” che i suoi due “strambi” compagni di avventura avevano sempre evitato. E il gelato, caduto di mano, nel finale, ad uno dei due vecchi amici, adesso rimasti nuovamente soli, e pronti per ricominciare il loro infinito e squinternato errare tra i tornanti della libertà assoluta pagata a caro prezzo, che si squaglia sull’asfalto di un’autostrada, calpestato dalle automobili (non lasciate la sala sui titoli di coda, vi perdereste questa splendida sequenza!), è geniale metafora, e insieme ammonimento, di una vita che vuole essere vissuta fino in fondo, senza compromessi, perchè di essa ce n’è una sola.


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