Giornalismo sotto attacco in Italia

Faccetta nera. Un Natale nostalgico.

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Ci sono canzoni che non appartengono al passato perché non se ne sono mai davvero andate. Restano lì, in una zona ambigua della memoria collettiva, pronte a riemergere quando il contesto smette di riconoscerle per quello che sono state. Faccetta nera è una di queste. Non un reperto storico, non un documento da manuale, ma un oggetto che continua a circolare, a insinuarsi, a trovare spazio. E quando riappare non lo fa quasi mai in modo dichiarato, rivendicato, esplicito. Al contrario, arriva mascherata da leggerezza, da distrazione, da errore tecnico, da folklore.
Nel giro di tre giorni è successo tre volte. A Campobasso, davanti al Comune, su una pista di pattinaggio dove giravano bambini e famiglie, la musica è partita come se nulla fosse. Il gestore ha parlato di una playlist di YouTube, di un automatismo sfuggito di mano. È una spiegazione che racconta molto del tempo in cui viviamo. Perché non è tanto importante stabilire se ci sia stata intenzionalità o meno. La domanda vera è un’altra. Com’è possibile che una canzone di propaganda fascista, legata alla guerra coloniale e alla violenza dell’impero italiano, possa stare lì dentro senza che nessuno senta il bisogno di intervenire subito, di fermare la musica, di dire no, questo no. Poco dopo accade a Sanremo, nel luna park. Ancora una volta Faccetta nera diffusa nello spazio dell’infanzia, del gioco, del consumo leggero. Ancora una volta lo stupore, le scuse, le prese di distanza. L’ANPI parla di un fatto grave, ma il clima generale resta quello della minimizzazione. Come se il problema fosse l’eccesso di sensibilità di chi protesta e non la disinvoltura con cui certi simboli vengono rimessi in circolo. È in questi passaggi che la storia smette di essere una lezione appresa e diventa un rumore di fondo. Quando tutto è equivalente, quando nulla pesa davvero, allora anche il fascismo può tornare sotto forma di canzonetta. Poi c’è Benevento, e qui la soglia viene superata. Perché una cosa è la piazza, un’altra è la scuola. In una classe, durante una lezione sul fascismo, Faccetta nera non solo viene ascoltata ma cantata. Agli studenti. Con il coinvolgimento dell’insegnante. E quando una ragazza manifesta disagio, viene messa a tacere. La vicenda, raccontata dalla giornalista Pina Fontanella, non pone solo un problema disciplinare o didattico. Pone una questione molto più profonda. Che idea di storia si trasmette quando il confine tra analisi critica e rappresentazione indulgente si fa confuso. Che tipo di messaggio arriva quando la scuola, che dovrebbe essere il primo presidio della memoria democratica, smarrisce il senso del limite.
Presi singolarmente, questi episodi possono essere archiviati come scivoloni, ingenuità, errori. Presi insieme, raccontano altro. Raccontano un Paese in cui il fascismo non ritorna con la forza della nostalgia organizzata ma con la debolezza della rimozione. Non come ideologia strutturata ma come presenza tollerata, svuotata di significato, resa accettabile proprio perché non viene più riconosciuta come pericolosa. È una dinamica che gli studiosi osservano anche altrove, mentre crescono forze politiche che lavorano sulla normalizzazione dell’autoritarismo, sulla riscrittura del passato, sulla stanchezza della memoria. Non è ossessione. Non è allarmismo. È attenzione. Perché le cose davvero inquietanti non sono quelle che fanno scandalo, ma quelle che passano. Quelle che nessuno sente più il bisogno di fermare. Se Faccetta nera può risuonare indisturbata nelle piazze, nei luna park e nelle scuole, allora la domanda non è perché qualcuno la faccia partire, ma perché così tanti non sentano il bisogno di spegnerla.

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