C’è un sentiero che unisce montagne e mare, greggi e maree, popoli e destini. È la Via della Transumanza che per secoli ha collegato gli Abruzzi alle Puglie: una dorsale di pietra e polvere, memoria incisa nel paesaggio e ora — con meritato riconoscimento — Patrimonio Unesco.
Su quel tracciato, percorso da pastori e poeti, non viaggiavano soltanto animali e merci, ma idee, canti, gesti, culture che si sfioravano e si fondevano. Come scriveva Carlo Levi, “la vita del Sud è una vita che continuamente passa di mano in mano”, in cui l’incontro diventa stile, destino, narrazione.
Oggi quello spirito antico riaffiora in un progetto che è, insieme, omaggio al passato e scommessa sul futuro: Le Vie degli antichi Mestieri, promosso da Lucrezia D’Errico – filologa classica e docente, fondatrice e presidente dell’associazione culturale SerendipitA3L – a Peschici, presentato a Roma in Senato su iniziativa della Senatrice Anna Maria Fallucchi e con la partecipazione del sindaco di Peschici Luigi D’Arenzo, del suo delegato alla Cultura, Leonardo Di Miscia e della studiosa Libera Falco. Un’iniziativa che raccoglie la linfa di quella commistione di culture per trasformarla in un percorso estetico ed educativo, radicato nel territorio e aperto al mondo.
Il cuore simbolico del progetto pulsa nelle formelle in terracotta modellate dal maestro Rocco Biscotti, delle storiche Ceramiche Frammichele. Sono piccole tavole di argilla, ognuna diversa eppure sorelle, tutte vegliate dalla figura di Garganella, la sirena figlia del Gargano: creatura liminale che emerge dal mare per raccontare, con la sua coda iridescente, la leggenda di un Sud matriarcale e visionario.
E il messaggio è chiaro: sono le donne che plasmano il mondo. Nelle formelle, tra i tanti mestieri maschili, lavori di un tempo lontano – il peciaiolo, il frantoiano, il fabbro, il carrettiere, il suonatore, il banditore di pesce – affiorano volti femminili, archetipi profondi di un Meridione che da sempre affida alle donne il soffio vitale delle sue storie. Così appaiono, forgiate nella terra essiccata, sirene, ambigue e salvifiche, custodi di mari interiori; tessitrici aracnee, che intrecciano fili come destini; spigolatrici di olive, chine tra gli ulivi secolari a raccogliere frutti preziosi “come perle di una collana mediterranea”; incantatrici di biscioni, eredi di riti antichissimi; fornaie che impastano pane e cielo, lasciando nelle vie un odore di lievito e vaniglia; malafemmene nel senso più autentico e popolare, donne libere, indomabili, non addomesticate dal giudizio, “come la luna che nessuno può afferrare”, direbbe Eduardo.
Sono donne che esercitano un potere silenzioso, quasi tellurico: quello delle mani. Mani che impastano, curano, lavorano, afferrano, allevano, creano.
Le mani che fanno il mondo sono proprio le protagoniste invisibili dell’intero progetto.
Mani del maestro Biscotti che affondano nell’argilla, la scaldano, la domano, la consolano; mani degli artisti e degli artigiani che lungo le Vie degli antichi Mestieri trasformano la materia in pensiero; mani dei turisti, dei bambini, dei cittadini che accarezzano le formelle come chi entra in un tempio domestico.
Rainer Maria Rilke scriveva: “La vera patria dell’uomo è l’infanzia.” E l’argilla, con il suo profumo umido e la sua docilità, ci riporta proprio lì: allo stupore primigenio di quando bastava un pugno di terra per fare un sole, un animale, un desiderio.
L’argilla come metafora dell’esistenza, fragile e forte insieme: come la vita, come noi.
La si può spezzare, ma può essere anche ricomposta. Cambia forma mille volte senza mai perdere la propria essenza. Ciò che la plasma — fuoco, acqua, mani, pazienza — è ciò che la rende opera d’arte. Così accade alle persone: sono le esperienze a modellare le nostre pieghe, a dare curve ai nostri giorni, increspature ai nostri dolori, lucentezza alle nostre rinascite.
E la cottura, quel fuoco che tutto rischia e tutto completa, è la metafora perfetta dei passaggi che ci trasformano definitivamente. Un nuovo cammino che nasce da un’antica strada: le Vie degli antichi Mestieri è, in fondo, un atto d’amore: per il territorio, per la memoria, per il gesto che crea. Un filo che collega la transumanza del passato alle migrazioni culturali del presente; un ponte tra chi eravamo e chi potremmo essere.
E in ogni formella, in ogni curva di Garganella, vibra la certezza che la cultura è un cammino: una strada di polvere, di mare, di mani che non si arrendono.
Una strada femminile e possente, che continua a condurci — come sempre — verso casa.
