L’aggressione a Alessandro Sahebi, avvenuta a Roma davanti alla compagna e al figlio di sei mesi, non è solo un episodio di cronaca ma un segnale profondo del punto in cui siamo arrivati come Paese. Tre uomini che colpiscono un giornalista per una felpa con la scritta antifascista raccontano la misura del clima in cui viviamo, un clima in cui la violenza non ha più bisogno di pretesti ideologici ma si esprime come riflesso naturale, in cui il fascismo non è più un ricordo da condannare ma una parola che si fa di nuovo gesto, insulto, pugno, abitudine. Sahebi non ha scelto il silenzio. Ha parlato, ha denunciato, ha trasformato un atto vile in una presa di posizione civile, ricordando a tutti che essere antifascista non è una colpa ma un dovere, e che quando la libertà viene minacciata la sola risposta possibile è esercitarla ancora, con coraggio, con la voce, con la denuncia. Non si tratta di una battaglia di bandiere, ma di una questione di dignità democratica. In un’Italia che il giorno dopo un pestaggio lascia sfilare a Predappio centinaia di persone tra saluti fascisti e simboli del Ventennio, la violenza contro un giornalista diventa un indicatore politico, non un fatto isolato. È il segno di una democrazia che si abitua, che minimizza, che delega la memoria alla cerimonia e la giustizia alle frasi di rito. Le leggi ci sono, e la Costituzione parla chiaro: il fascismo non può essere tollerato, la sua apologia è reato, la libertà di stampa è un fondamento della Repubblica. Eppure le forze dell’ordine presidiano senza intervenire, la politica osserva senza agire, e la società civile si spacca tra tifoserie. È in questo vuoto che la violenza trova spazio, si organizza, si moltiplica, e finisce per colpire sempre gli stessi: chi scrive, chi studia, chi espone un simbolo, chi sceglie di non tacere. Alessandro Sahebi ha reagito come dovrebbe reagire un cittadino libero, restando in piedi, restando lucido, rifiutando la logica del rancore e rispondendo con la forza della parola. È un gesto che pesa più di qualsiasi pugno, perché afferma che la libertà si difende con la verità e non con l’odio. Oggi più che mai l’antifascismo è la misura del nostro tempo, non un residuo del passato ma il confine tra democrazia e barbarie. Non servono nuove leggi ma la volontà di applicarle, non servono parole di solidarietà ma scelte politiche, atti concreti, decisioni coerenti. L’aggressione di Roma ci ricorda che la memoria non è un esercizio ma una pratica quotidiana, e che il silenzio di chi può intervenire è già una forma di complicità. Essere antifascisti è un dovere, oggi ancora di più, perché solo riconoscendo questo dovere possiamo restare un Paese libero.
(Nella tavola Alessandro Sahebi)
(Nella tavola Alessandro Sahebi)
