Tre anni fa, il 16 settembre 2022, moriva nell’ospedale Kasra di Teheran, Mahsa Jina Amini, una ragazza curda di 22 anni, arrestata 3 giorni prima all’uscita di una stazione di metro dalla polizia morale della Repubblica Islamica. Sua l’unica colpa, qualche ciocco di capelli fuori dall’hijab obbligatorio che il regime degli ayatollah impone alle donne iraniana.
Mahsa, che era curda ed era nella capitale assieme alla famiglia per una visita, fu portata nella centrale della polizia morale in via Vozara e colpita alla testa e arrivata, secondo i medici, cerebralmente morta in ospedale.
I funerali di Mahsa nel cimitero della sua città natale Saqqez, nel Kurdistan iraniano, si trasformarono in una grande manifestazione contro il regime e in poche ore si estesero a tutto il paese. Padre di Mahsa, impiegato di un ente governativo, disse sulla tomba della figlia “cara Jina non sei morta perché il tuo nome è diventato un nome in codice”.
Effettivamente nelle settimane e mesi successivi, per le strade dell’Iran e del mondo intero centinaia di migliaia di persone, e non solo iraniani gridarono il suo nome protestando contro il regime autoritario e dittatoriale degli ayatollah. La rivista Forbes nel 2022, incluse nome di Mahsa Jinan Amini tra le 100 donne che influenzarono il mondo.
A 3 anni di distanza dalla morte di questa ragazza, lo slogan “Zan Zendeghi Azadi” (Donna Vite Libertà) viene ripetuta in ogni angolo della terra, quando si parla del regime degli ayatollah e del movimento per la democrazia in Iran. La morte brutale di Mahsa Jina, Non ha cambiato il regime in Iran, ma ha cambiato gli iraniani. Oggi per le strade del paese, vedere donne che non rispettano il velo imposta dal regime è diventato normale. Il regime autoritario della Repubblica Islamica, malgrado forte repressione non riesce più ad imporsi come prima.
Molti gli arresti effettuati con l’inizio delle proteste note come Donna Vita Libertà. Oltre 30.000 persone sono state arrestate durante quelle settimane di proteste. Oltre un migliaio i morti durante le manifestazioni. Diverse centinaia feriti, molti hanno perso un occhio e vivono con fino a 200 pallini di caccia nel corpo. Sadaf Baghbani, una di loro con 150 di questi pallini vive ora a Milano, e nei giorni scorsi ha raccontato al Festival del Pensare Contemporaneo di Piacenza la sua storia, commovendo la sala gremita di gente.
I Basiji, le milizie della Repubblica Islamica, utilizzano fucili a pompa contro i manifestanti durante le proteste di massa. Le pallottole utilizzate sono però Made in Italy. Prodotte negli stabilimenti italiani della società franco-italiana Cheddite a Livorno, e vendute alla Repubblica Islamica. Un commercio che continua, malgrado decine di prove che vengono utilizzate non dai cacciatori, ma dalle forze dell’ordine e sparate non contro gli uccelli, ma contro chi protesta contro le barbarie di un regime che secondo Amnesty International e Human Rights Watch, nelle ultime due settimane di luglio, dopo la guerra di 12 giorni con Israele ha arrestato oltre 20.000 persone. Nel 2025 ogni 6 ore una persona nella Repubblica Islamica è finita sulla forca, facendo dell’Iran il secondo paese, dopo la Cina, per il numero delle esecuzioni.
